“Da nemico delle chiusure e delle passioni tristi, ha dispiegato il suo pensiero in un’apertura costante non tanto al ‘senso dell’esistenza’, orizzonte inaccessibile, quanto all’esistenza del senso come presenza che freme in ogni fenomeno osservabile; attraversando i temi della politica, della contingenza, del corpo, delle arti…”. A un mese dalla scomparsa, Ilaria Gaspari ricorda su ilLibraio.it il filosofo francese Jean-Luc Nancy (26 luglio 1940 – 23 agosto 2021)

In un pamphlet delizioso dedicato ai libri (Del libro e della libreria, uscito in Italia per Raffaello Cortina nella traduzione di Graziella Berto), Jean-Luc Nancy scrive che la particolarità del libro è che “non può essere considerato né semplicemente come un “contenente” né propriamente come un “contenuto”. Il libro non è l’oggetto che è possibile riporre su uno scaffale o posare su un tavolo, e non è nemmeno il testo che risulta stampato sulle sue pagine. Ma va piuttosto dall’uno all’altro, o meglio si mantiene nella tensione tra i due: apre questa tensione, la suscita e non smette di alimentarla con il susseguirsi delle sue pagine”.

Del libro e della libreria

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Mi sorprendo ultimamente a pensare che quel che Nancy dice dei libri vale anche per un filosofo – o meglio un pensatore: forse avrebbe preferito esser chiamato così – come lui. Un pensatore non è solo il suo pensiero, ma non è nemmeno solo la persona che quel pensiero pensa; è, insieme, la persona e il pensiero; è la tensione fra corpo e mente che la vita alimenta, e la morte non sconfigge.

La notizia della sua scomparsa mi è arrivata mentre me ne stavo a lavorare davanti al computer, nel pieno di un temporale di fine agosto; Jean-Luc Nancy aveva 81 anni. Quando, verso la fine del 2020, avevo avuto la fortuna di intervistarlo, mi era comparso sullo schermo dello stesso computer, dietro i grandi occhiali, la testa lucida e un sorriso dolce e furbo, su Skype, che utilizzava con disinvoltura, nella sua casa luminosa di Parigi. Avevamo parlato di cose grandi, del tempo e della morte, della paura e del razionalismo secentesco, e di cose molto piccole, minute; mi aveva raccontato che usciva molto poco da quando era scoppiata la pandemia, che per fortuna non si sentiva solo perché la sua famiglia si prendeva cura di lui.

Lui, lucido e infaticabile, finché ha potuto ha partecipato a incontri e convegni online, riflettendo ostinatamente sul presente nel momento in cui il presente si rivelava inafferrabile; nell’ottobre scorso aveva pubblicato per Bayard una piccola raccolta di saggi sul virus “troppo umano” (Un trop humain virus) che mette a nudo le nostre debolezze, le contraddizioni e soprattutto le diseguaglianze sociali: al centro del libricino brilla l’idea che, davanti a questa catastrofe inattesa eppur prevedibile, quel che dovremmo fare è semplicemente tornare bambini, abitare come bambini il presente, imparare daccapo a respirare, a parlare; solo che tornare bambini è impossibile, impossibile imporsi la meraviglia, se non arriva come atteggiamento spontaneo.

Dunque che fare? Non ci resta che lasciare la presa, permetterci di essere come siamo davanti alle opere d’arte: inermi, aperti, pronti a incontrare qualcosa che non riusciamo a dominare, e disposti a desistere dal desiderio di dominarla. Così scriveva, verso la fine della sua vita mortale, lui, che si è addottorato con una tesi su Kant sotto la guida di Paul Ricoeur, altro filosofo sottile e coltissimo; che ha vissuto la maggior parte della sua vita “nell’illusione del progresso”, con l’idea che il nuovo fosse sempre anche il meglio, come mi raccontava su Skype con una dolcezza sollecita – sollecita per la mia generazione, che non potrà mai dire altrettanto – che non dimenticherò.

Grande amico di Jacques Derrida e Jean-Christophe Bailly, una carriera accademica brillantissima fra Strasburgo, Berkeley e Berlino, una quantità impressionante di pubblicazioni, molte firmate a quattro mani – e anche questo dice tanto della sua apertura e generosità di studioso e di pensatore –, Nancy, da nemico delle chiusure e delle passioni tristi, ha dispiegato il suo pensiero in un’apertura costante non tanto al “senso dell’esistenza”, orizzonte inaccessibile, quanto all’esistenza del senso come presenza che freme in ogni fenomeno osservabile; attraversando i temi della politica, della contingenza, del corpo, delle arti.

Un pensiero che ripercorre i fili intessuti da altri autori, da Hegel a Heidegger a Spinoza, e li ritesse in maniera originale, mentre individua i confini del singolo (essere singolare plurale, come il titolo di uno dei suoi saggi più belli) nell’apertura all’altro, nell’impossibilità (e nell’assurdità) dell’isolamento atomistico degli individui. Ma, appunto, nel suo sincretismo dialettico così vivo e aperto, come una porta pronta a sbattere al vento, il pensatore non è solo il suo pensiero, è anche – in questo, davvero spinoziano – il corpo che gli permette di pensare. E il pensiero di Nancy, come lui stesso sorrideva raccontando, è un pensiero vissuto trent’anni più di quanto non sarebbe accaduto se non fosse stato per il trapianto di cuore a cui si sottopose nel 1992: un’operazione non facile, tanto che alcuni amici, fra cui Giorgio Agamben, gli sconsigliarono di affrontarla. Il trapianto invece andò a buon fine, e non solo gli accordò la possibilità di vivere la vecchiaia, ma gli offrì la materia per un libro bellissimo, L’intruso, romanzo filosofico così scandalosamente intimo da arrivare a esporre questo cuore estraneo scandagliando il dilemma antico di cosa sia l’identità.

Ripenso oggi a tutto questo, alla conversazione di pochi mesi fa, al viso nel riquadro del computer, al cuore donato che lo faceva vivere: un cuore di chi? Il criterio per il trapianto è la compatibilità del gruppo sanguigno, e come ha scritto Nancy stesso, il suo cuore poteva benissimo essere quello di una donna nera, nel petto di un uomo nato a Bordeaux nel 1940.

Ripenso a lui che per trent’anni ha avuto in petto questo cuore sconosciuto, che con la sua estraneità gli ha permesso di aprirsi al mondo in maniera assoluta, totale, sbriciolando l’idea reazionaria dell’identità come cosa fissa, immutabile, da difendere intristendosi nel ruolo di guardiani di una fortezza minacciata; penso a quel cuore che si è fatto pensiero, e gli ha permesso di scrivere di cose così umane, mai troppo umane.

L’AUTRICE – Ilaria Gasparicollaboratrice de ilLibraio.it, è nata a Milano. Ha studiato filosofia alla Scuola Normale di Pisa e si è addottorata con una tesi sulle passioni all’università Paris 1 Panthéon Sorbonne. Nel 2015 è uscito il suo primo romanzo, Etica dell’acquario (Voland). Ha poi pubblicato Ragioni e sentimenti – L’amore preso con filosofia (Sonzogno),  Lezioni di felicità. Esercizi filosofici per il buon uso della vita (Einaudi) e, sempre con Einaudi, Vita segreta delle emozioni.

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