“Senza di lui, Epicuro non l’avrei mai potuto capire, e neppure nessuno dei pensatori che insegnano agli uomini a essere liberi”. Nei giorni scorsi è morto il filosofo e studioso Paolo Cristofolini. Lo ricorda con commozione su ilLibraio.it la scrittrice Ilaria Gaspari, che torna agli anni dell’università, alla Normale di Pisa: “Stavamo cercando un maestro. Ne avevamo un gran bisogno, come tutti quando crescono: non è un capriccio, è che senza maestri crescere è impossibile, e impossibile è soprattutto smettere di essere megalomani e insicuri…”

Mentre pensavo a tutt’altro, l’altra mattina ho ricevuto quattro telefonate da uno dei miei amici più cari. Avevo tolto la suoneria e non le ho sentite; ma quando ho visto le quattro chiamate, una dietro l’altra, ho capito subito che era successo qualcosa. Era morto il mio maestro, Paolo Cristofolini. Avrebbe compiuto ottantatré anni il mese prossimo, il giorno del compleanno di Vico, di cui lui era uno dei massimi studiosi: me lo ricordavo, anno dopo anno, perché andava molto fiero di questa coincidenza. Ho pianto molto. Ottantatré anni non sono pochi; dentro di me, da qualche parte, sapevo che molto probabilmente sarebbe arrivato – il più tardi possibile – un giorno irrimediabile come l’altro giorno. Non immaginavo però che potesse essere una mattina di sole; immaginavo tempesta e cielo grigio, immaginavo che sarei stata pronta.

E invece è stato un mercoledì pieno di profumo di gelsomini e di cielo blu, in questa surreale primavera; e io non ero pronta affatto, perché è ovvio che pronti non si è mai.

Sono tornata a casa e non ho smesso di piangere fino alla sera tardi, quando mi sono addormentata con una mano fasciata perché nel frattempo mi ero bruciata mentre piangevo e cucinavo. Ora ho una linea rossa in rilievo sul palmo; mi dico che forse ho voluto cercare un altro dolore. Il mio cane, vedendomi così, si è inquietato; e la sua risposta è stata mangiarsi la mia borsa di cuoio, regalo della mia laurea triennale. Non mi sono arrabbiata. Il fatto è che avevo appena finito di buttare all’aria una marea di scartoffie, fotocopie, moduli e ricevute di biblioteche, biglietti di cinema e tram (sono un’accumulatrice morbosa, attaccata al passato e agli oggetti), alla ricerca di una fotografia proprio della mia laurea triennale, nel 2008. Non è particolarmente bella, anzi, ma c’è Paolo, altissimo, in piedi vicino a me che a vedermi oggi mi sembro minuscola. Io ho gli occhi sbarrati per l’ansia, perché a quel tempo avevo paura di tutto; lui mi sta dicendo qualcosa che ora non saprei ricostruire. Ma so che doveva essere qualcosa di incoraggiante, perché lui era fatto così. Per questo ho pianto tanto; non solo perché non ero pronta a pensare che non ci saremmo visti più, nel suo studio di casa, con il sole che entra dalla finestrella alta e colpisce le coste dei libri, i suoi bellissimi libri che lui amava non con passione polverosa di erudito, ma con una familiarità giocherellona, come fossero stati oggetti vivi: come qualcuno ama le piante e le cura, e le sceglie e crea giardini pieni di luce e meraviglia, lui amava i libri, amava farli vedere a chi andava a trovarlo, amava farli respirare e farli vivere.

Non mi sarei più seduta nella poltrona chiara, le spalle alla vetrata, e lui nella poltrona gemella, a sporgersi in avanti perché parlavo a voce troppo bassa. Non mi avrebbe più raccontato delle nipotine che adorava, e chiesto, dopo aver parlato dei progetti che avevo, di quello che lui stava scrivendo, come andava l’amore, se c’era qualcuno che mi voleva bene come meritavo; e io non avrei più mentito dicendo di sì, e tacendo che pensavo di non meritare proprio nessun amore. A lui questo non lo potevo confessare, ma sapevo che lo capiva, altrimenti non mi avrebbe fatto mai quella domanda; ora che sono passati più di dieci anni da quando l’ho conosciuto, e la donna che sono sembra, quasi sempre, aver soppiantato la ragazzina tremebonda di allora, capisco che anche con quelle domande mi stava insegnando qualcosa; e che il mio ritegno a confessare l’insicurezza che mi rodeva lui lo sentiva, e ne sorrideva. Perché anche se allora mi sembrava un problema irrimediabile essere quella che ero, giovane, nevrotica e paurosa, lui sapeva già che avrei rimediato, sarei cresciuta; che avrei trovato la mia strada. Non l’avrei trovata, però, se non avessi conosciuto lui; di questo sono certa, e perciò piangevo, di gratitudine, non solo di desolazione.

A settembre 2005, passata l’estate a studiare e poi il concorso di ammissione, eravamo in sette iscritti a filosofia alla scuola Normale, di cui sole due ragazze. Ora di anni ne abbiamo trentatré, siamo tutti amici attraverso legami imprevedibili, nessuno di noi sta facendo un percorso regolare – il percorso che immaginavamo allora, quello a cui eravamo convinti di aver cominciato a prepararci. Eravamo megalomani e insicuri come si può esserlo a quell’età; noi ragazze forse inclinando un po’ più verso l’insicurezza, perché per qualche ragione sbagliata, è così che funziona.

Non saprei dire, adesso – lo direi con il senno di poi – se a quel tempo avessimo una qualche consapevolezza, per lo meno, di quello che stavamo cercando: un maestro. Ne avevamo un gran bisogno, come tutti quando crescono: non è un capriccio, è che senza maestri crescere è impossibile, e impossibile è soprattutto smettere di essere megalomani e insicuri. Quello che ricordo è la sensazione di tormentosa inadeguatezza da cui mi pareva di non poter uscire. Ricordo anche la pressione del confronto costante con gli altri, una competizione a cui mi sentivo inadatta, che mi gettava nella vergogna di quella che ero.

Parlavo con un filo di voce, mi nascondevo in tutti i modi possibili; avevo paura della mia ombra. Paolo, che allora stava per andare in pensione, ma che ha continuato poi, per molti anni, a seguirmi, ad ascoltarmi, a consigliarmi, era il solo professore che non solo non mi faceva paura, ma mi metteva allegria. Con le sue giacche di velluto a coste e le camicie a scacchi colorati, elegante e svagato, lui sorrideva sempre. Non riesco a ricordare ora la sua faccia senza il sorriso. A lezione ci parlava di Spinoza e della gioia. Fu una rivelazione, per me; mi misi a studiare Spinoza perché lo confondevo un po’ con lui, perché cercavo un maestro e l’avevo trovato, anche se me ne rendevo conto solo per approssimazioni oblique.

Paolo andò presto in pensione, ma le sue mattine continuava a passarle in biblioteca, e ci incontravamo spesso: risaliva Borgo Stretto sotto i portici, tutto svagato e sorridente. Si fermava alla libreria Ghibellina, che gli piaceva molto anche perché esisteva già da ben prima che lui arrivasse a Pisa da studente; e poi in biblioteca, al sesto piano, nella stanzetta sotto il tetto con il soffitto basso che da fuori pareva un acquario, dov’erano Spinoza e Marx e Nietzsche; si sedeva lì, e studiava. Studiava i suoi pensatori liberi e libertini, di cui sapeva parlare con affetto, come fossero stati vecchi amici, nonostante il rigore filologico impressionante che sfoderava all’occorrenza. Mi parlava dei suoi anni a Parigi, e quando a Parigi ci sono andata a vivere – ed è stato grazie a lui, anche, che mi mise in contatto con la Sorbonne dove aveva insegnato per un periodo – si raccomandava che mi perdessi per la città: solo così la conoscerai davvero, mi diceva. E io mi sono persa tante volte; aveva proprio ragione.

E intanto completava per ETS le sue bellissime traduzioni dell’Etica, del Trattato Politico. L’edizione della Scienza Nuova di Vico. Le ho con me, con le dediche che mi ha scritto. Io annaspavo, avevo ancora troppa paura per pensare con la mia testa; parlavamo dei miei studi, tesi e tesine che dovevo consegnare, perennemente in ritardo, e lui mi diceva sempre la parola che mi apriva una via per riuscire a incatenare i pensieri nel verso giusto, quella che mi aiutava a pensare. Qualche volta ci incontravamo al bar, a metà mattina. Se ho imparato a bere Martini dry alle 11 di mattina chiacchierando degli attributi della Sostanza è stato grazie a Paolo; un maestro vero ti insegna anche queste cose, anche a smettere di fare la secchiona e a tornare in biblioteca alticcia, a mezzogiorno. Parlare con lui mandava via la paura, ed è stato parlando con lui che ho capito che quella paura che mi paralizzava – di sbagliare, di fare brutta figura – era la più triste di tutte le passioni tristi: che mi faceva esistere di meno. Paolo aveva della filosofia un’idea simile a quella dei grandi filosofi incompresi al loro tempo, liberi e controcorrente, come Spinoza, come Epicuro: che con il pensiero vogliono liberare l’uomo dalla paura.

Una sera ci vedemmo a Parigi, dopo un convegno; andammo a cena in un bistrot in rue Saint André des Arts in cui gli piaceva tornare. Sembrava che fosse a casa; capii che ci aveva passato molte sere, in un tempo già lontano ma con cui manteneva, come mi sembrava facesse con tutte le cose della sua vita, una familiarità affettuosa e lieve. Era inverno e quando uscimmo sulla strada nevicava. Mi ricordo ancora la neve in controluce nel bagliore dei lampioni; e mi ricordo Paolo che mi diceva che lui la neve a Parigi se la ricordava sempre, a decenni di distanza.

Quando mi raccontava episodi della sua lunga vita, avevo la percezione dell’intensità e della leggerezza con cui l’aveva attraversata tutta – l’infanzia, la guerra, la Normale negli anni Cinquanta. Pisa e Pescia, e Parigi. Mi piaceva sentire i suoi racconti, che qualche volta attraversavano dei dolori, molto spesso facevano ridere. Qualche settimana fa, alla fine di aprile, ci eravamo sentiti al telefono. Paolo aveva finito di leggere il mio ultimo libro e mi aveva chiamata per dirmi che gli era piaciuto e che era felice di averlo letto. Saremmo stati due ottimi epicurei, mi ha detto. Con il senno di poi, vorrei avergli detto in quella telefonata tutte le cose che ho scritto qui adesso; ovviamente non l’ho fatto, perché il senno di poi arriva solo quando è troppo tardi. Ma una cosa gliel’ho detta, per fortuna: che senza di lui, io Epicuro non l’avrei mai potuto capire, e neppure nessuno dei filosofi che insegnano agli uomini a essere liberi. Purtroppo non gli ho detto quanto mi sentivo grata di aver avuto un maestro come lui; sarebbe suonato retorico, al telefono, e pure fuori luogo. Ma spero che lui, sempre sornione, l’abbia capito lo stesso.

 

L’AUTRICE – Ilaria Gasparicollaboratrice de ilLibraio.it, è nata a Milano. Ha studiato filosofia alla Scuola Normale di Pisa e si è addottorata con una tesi sulle passioni all’università Paris 1 Panthéon Sorbonne. Nel 2015 è uscito il suo primo romanzo, Etica dell’acquario (Voland). Ha poi pubblicato Ragioni e sentimenti – L’amore preso con filosofia (Sonzogno) e Lezioni di felicità. Esercizi filosofici per il buon uso della vita (Einaudi).

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