La collana Oscar Junior di Mondadori propone 4 grandi romanzi distopici (da “Fahrenheit 451” a “1984”, passando per “Il Signore delle Mosche”) presentati da scrittori molto noti (c’è anche Stephen King). E affida le copertine a Gipi – Su ilLibraio.it la prefazione di Pierdomenico Baccalario a “La Fattoria degli Animali” di Orwell

Mondadori ha da poco lanciato nuova collana, che mette insieme gli autori di oggi e i grandi della letteratura di ieri. Dopo le uscite dedicate ai gialli e quelle dedicate alle eroine romantiche, Oscar Junior porta in libreria uno speciale sui romanzi distopici, affidando le copertine dei quattro classici del genere a Gipi.

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Escono così Fahrenheit 451 di Ray Bradbury (con prefazione di Neil Gaiman), 1984 di George Orwell (introdotto da Robert Harris), Il Signore delle Mosche di William Golding (presentato da Stephen King) e La fattoria degli animali di George Orwell.

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Su ilLibraio.it proponiamo la prefazione dello scrittore Pierdomenico Baccalario al capolavoro di Orwell:

Mio nonno non era un forte lettore. Non leggeva quasi niente, perché, mi diceva la nonna, una volta che iniziava non riusciva a smettere di farlo. Quando lei lo convinse a leggere Via col vento, ad esempio, il nonno trascorse quattro giorni senza dormire, mangiando il minimo indispensabile, pur di arrivare fino alla fine. Non ne ho mai parlato con lui, quindi non

so dire esattamente perché facesse così. Ma ho una teoria. Non gli ho nemmeno mai chiesto per bene del suo lavoro, perché sapevo che non mi avrebbe risposto: aveva lavorato per i servizi segreti. Di lui so che era uno scacchista eccezionale. Sedeva a capotavola, nello stesso posto dove oggi, quando torno a casa, mi siedo io. La televisione era, ed è ancora, dalla parte

opposta, e durante i pasti guardavamo sempre il telegiornale.

A me non piaceva, mi sembrava inutile. Non lo capivo. Finché un giorno mio nonno mi passò

un libretto.

Questo.

All’epoca ero un lettore forsennato ed ero entrato in quella fase in cui mi piacevano soltanto storie spaventose.

«È bello?» gli domandai.

«No» mi rispose lui. «Ma ti servirà.»

“Oddio” pensai subito, “i libri utili.” Praticamente tutti i miei insegnanti avevano provato a convincermi dell’utilità di certe letture, attirandosi solo sberleffi.

«Fa’ attenzione, però…» aggiunse mio nonno.

«Perché fa paura.»

Aveva pronunciato la parola magica. All’improvviso, La fattoria degli animali cambiò peso specifico. Andai subito in camera a leggere, giudicando che avrei esaurito il libretto prima di cena. Un paio d’ore dopo ero di nuovo giù.

«È una favola » dissi a mio nonno. «Non fa paura.»

«L’hai finita?»

«Non ancora» risposi.

«Tu credi nelle favole?»

Più che una domanda, la sua mi sembrò un arrocco, una mossa tra la torre e il re degli scacchi.

«Certo che sì» risposi. Avevo in testa tonnellate di pagine di elfi, nani, hobbit e pietre magiche di Shannara.

«Allora ti farà ancora più paura» concluse lui. Tornai a leggere. Mi sembrava di avere tra le mani una versione meno avventurosa della Collina dei conigli di Richard Adams (1972) e meno poetica del Vento tra i salici di Kenneth Grahame (1908). Non era così. Non bastavano animali parlanti, la campagna inglese e tre autori britannici a fare tre storie simili.

E in realtà, come avrei capito più tardi, nella Fattoria c’era molta più avventura che nella Collina dei conigli: c’era la straordinaria epopea della Rivoluzione, del cambiare tutto, del mettere le cose a soqquadro. E c’era moltissima poesia, nel modo in cui gli animali si aiutavano tra loro, o nelle parole del Vecchio Generale, nel suo sogno di un mondo di animali

liberi e senza padroni. Però allora, quando lo lessi per la prima volta, anziché decollare come mi sarei aspettato, la storia della Fattoria si impantanava sempre di più e io ero furente.

Soffrivo. Volevo smetterla. Ho provato le stesse sensazioni oggi, quando ho riletto la storia per scrivere questa Prefazione.

Il mio primo istinto è stato di prendere carta e penna e riscrivere tutto. E, da metà in poi, organizzare una rivoluzione della rivoluzione. Ho sentito la responsabilità di salvare il libro e i suoi personaggi.

Soprattutto Boxer, che era ed è rimasto il mio eroe: il cavallo che non si dà mai per vinto. Ma già allora avvertivo qualcosa di tremendo che aleggiava intorno a lui. E a tutti gli altri.

A quei tempi, io e la mia famiglia vivevamo in campagna, avevamo anche noi degli animali: le oche del romanzo mi sembravano quindi riuscitissime. Mi piaceva che ripetessero sempre la stessa frase. Sempre la stessa. Ma allora perché, mi chiesi, a un certo punto cambiavano e cominciavano a ripeterne ossessivamente una nuova? Sembravano stupide, ma proprio perché lo erano! Anche in quel caso, solo dopo parecchio tempo avrei scoperto, grazie a una mostra visitata alla British Library, i segreti della Propaganda, della ripetizione ossessiva di un concetto affinché poco a poco “suoni” sempre più vero.

Pagina dopo pagina, la Fattoria diventava sempre più grande, più odiosa. Il maiale Piffero era il mio grande nemico. Lo odiavo. Avevo capito a cosa puntava!

Volevo fermarlo e pregavo che qualcuno degli altri animali lo facesse. Ero così sicuro che prima o poi Boxer, o Trifoglio, con un colpo di testa di quelli che rendono certe storie meravigliose, o forse Beniamino, l’asino cinico che sapeva leggere, ma non leggeva per scelta, alla fine…

Alla fine…

Alla fine… non mi ero mai sentito così, leggendo un libro, e raramente mi sarebbe capitato di nuovo, nel corso della vita. Ero spaventato? Sì. Ma non dalla storia che avete tra le mani. Ero spaventato da quello che non succedeva. Dal modo in cui non si risolveva.

Ero spaventato dal tradimento: dei maiali nella fattoria e di George Orwell nei miei confronti.

Perché mi aveva fatto questo?

Che bisogno aveva di uccidere una favola con gli animali parlanti? E, soprattutto, perché mio nonno me l’aveva data da leggere, quella favola? A dirla tutta, non ero solo spaventato. Ero arrabbiato.

Volevo muovermi. Agire. Reagire. In qualche modo, mi sentivo offeso nelle mie convinzioni più profonde: che i libri fossero importanti, che mi avrebbero aiutato a fuggire, a capire, a controllare le mie emozioni, e tutta la tiritera che già conoscete.

Poi, una sera, o un pranzo – chi si ricorda? – guardai il tizio che parlava al telegiornale e me ne resi conto di colpo: stava cercando di farmi credere il contrario della verità, esattamente come Piffero. Subito dopo ne sentii altri due ripetere frasi fatte, come le oche.

Infine un terzo, che invece pareva proprio Boxer, e sosteneva che bisognava lavorare di più.

Mi voltai, sorpreso, e là, a capotavola, vidi mio nonno, improvvisamente trasformato in Beniamino, l’asino che sa leggere, ma ha deciso di non farlo.

Quello che aveva troppa paura del finale per riuscire ad abbandonare un libro iniziato.

Mi sorrise.

Aveva capito che avevo capito.

Penso a lui, a Orwell e a Piffero, ogni volta che leggo un giornale, o cerco un’informazione sul web, e mi accorgo di quanto sia facile, cambiando una parola dopo l’altra, modificare tutto ciò che crediamo di sapere, senza che nessuno se ne accorga. Senza che nessuno se ne ricordi più. Quello che allora mi parve un tradimento del lettore fu un grande – e, credo, sofferto – regalo a tutti i lettori. Orwell mi mise in guardia dalla lettura e dall’ascolto delle oche ripetenti, mi insegnò a leggere le favole sapendo che erano favole. Ma, soprattutto, a non cercare favole

in tutto il resto.

Ho solo un rimpianto, dei giorni in cui c’era ancora mio nonno. Ogni volta che a casa si uccideva il maiale, mia mamma mi caricava in macchina e mi portava via, perché, quando muore, il maiale strilla come un essere umano. È difficile distinguere il suo urlo dalla voce umana, dicono, davvero molto difficile.

Ecco, alla fine di questo libro forse capirete perché non so se facessimo bene ad andarcene. A volte è meglio restare, e soffrire un po’.

Buona lettura.

Pierdomenico Baccalario


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