“La prova della mia innocenza” di Jonathan Coe offre una satira acuta sulla politica britannica, ambientata nel tumultuoso periodo della nomina di Liz Truss a primo ministro. Attraverso la morte del blogger politico Christopher Swann, l’autore crea un gioco narrativo che intreccia verità e fantasia, mettendo in luce le precarietà delle nuove generazioni in un contesto segnato da individualismo e instabilità sociale. Con uno stile che fonde umorismo e generi come cosy crime, dark academia e autofiction, Coe si distingue per la sua sicurezza e spavalderia, regalandoci un’opera arguta, bizzarra e pungente
“Per definizione, l’atto stesso dello scrivere è un gesto selettivo, e da qui la distorsione, da qui
l’invenzione”.
Verità e politica non vanno sempre d’accordo, ma se ti chiami Jonathan Coe riesci a costruire una narrazione così bizzarra e pungente su questo binomio, da divertirti, e far divertire il lettore, facendo intrattenimento sul mondo e sulle sue assurdità. La prova della mia innocenza (Feltrinelli, traduzione di Mariagiulia Castagnone) è Coe alla massima potenza: il suo ritratto della politica inglese, divisiva e scollegata dalla realtà, è la rappresentazione del caos, di un’assurdità sociale che potrebbe già essere di per sé comica se non travolgesse tutti, a partire dai giovani.
Coe sceglie proprio il periodo più insensato, quello della nomina a primo ministro di Liz Truss. È il trionfo conservatore, il momento in cui le frange più estremiste riprendono vigore.
“È presto per dire se Liz Truss sia effettivamente uno strumento di tortura che i vecchi hanno deciso di usare contro i giovani. Una cosa è certa, però. Domani diventerà primo ministro, il che significa che quel momento segnerà la definitiva separazione della Gran Bretagna dalla realtà. Domani sarà il giorno in cui la vita reale si fermerà per fare spazio alla fantasia“.
Mentre nei Cotswolds si tiene una conferenza di destra, e gli intellettuali si alternano a evocare cambiamenti epocali, un noto blogger politico viene trovato morto. Christopher Swann non era solo un deciso critico del partito conservatore, ma anche compagno di università di alcuni dei membri più in vista e più potenti di un think thank radicale, il Processus Group.
Ci sono mondi che si collegano, decenni da attraversare, nostalgia per i tempi passati, azzardi elettorali, ambizioni di fama letteraria, sete di potere economico: c’è un individualismo che si nutre sulla sopravvivenza del più forte, germoglia e porta al mondo in cui siamo, terra di libertarismo, dove non esite più il noi e dove ognuno gioca la propria miope partita.
Dopo sette settimane, Liz Truss si dimette, concludendo un mandato surreale, e Coe (qui la sua intervista con ilLibraio.it) costruisce su questo periodo un gioco narrativo che non ha altro scopo che quello di combinare verità a fantasia, realtà oggettiva a realtà soggettiva, distorsione a invenzione. Questo è l’atto di scrittura per eccellenza, e questo è il divertissement che Jonathan Coe intraprende con la sicurezza e la spavalderia che da sempre gli sono riconosciute.
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In La prova della mia innocenza Jonathan Coe travolge e mescola insieme generi e stili diversi, fondendo storie e rigirandole su se stesse, facendo fiction della realtà, e spacciando come realismo l’invenzione. Perché mentre il giallo della morte di Swann si sviluppa in indagine, il romanzo assume la forma di un cosy crime, genere in evoluzione, di grande smercio e facile realizzazione: Coe lo prende e ci gioca, mischiando un’elegante residenza di campagna, un biglietto misterioso, un passaggio segreto, e un manipolo di intellettuali pieni di sé. Poi sterza, e fa girare la storia sullo stile dark academia: racconti di college, amicizie studentesche, società e incontri clandestini tra studiosi di Cambridge.
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È una storia che si imbriglia su se stessa, e che poi approda alla terza sequenza narrativa, quella intramontabile dell’autofiction, dove il memoir sembra far chiarezza, ma non è altro che un ulteriore elemento del rompicapo narrativo di Coe.
L’autore si diverte, abbiamo detto, prendendosi gioco di tutto, e noi con lui. Perché questo rompicapo non è un esercizio stilistico, peraltro perfettamente funzionante e godibile: è la dimostrazione dell’inverosimile che non è lontano dal reale, e ne è parte integrante. E allora tutti i cambiamenti di stile e di registro non sono altro che un gioco di specchi, dove oggettività e fantasia si guardano e si fanno beffe una dell’altra.
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“Abbiamo tutti la nostra realtà e lì restiamo inchiodati. E l’unico modo che hai per staccartene per un po’ è guardare un film, leggere un libro, seguire una serie televisiva”.
In un mondo in cui ognuno guarda a sé, e dove prevale il potente, come ci si mette d’accordo su quello che è vero e quello che non lo è?
Quando ciascuno vede il mondo in modo così diverso dagli altri, come fare per scoprire la verità?
Le domande che Jonathan Coe fa scaturire dal suo gioco letterario sono tutto fuorché spiritose, ma la sua satira è arguta, e sorridendo picchia dove sa di far male. Rimane la sincerità della leggerezza, la fuga nella fantasia, nell’innocenza dell’evasione, nelle serie televisive, Friends come scappatoia per un mondo che sembra ancora più irreale della finzione.
La critica di Coe supera i confini della sua nazione, abbraccia il mondo così come è andato avanti dall’epoca Thatcher-Reagan, così come è approdato al populismo nazionalista di Donald Trump, bloccato su individuo e consumo, ancorato alla nostalgia del tempo passato, e incapace di dare risposte di senso alle nuove generazioni: Phyl, laureata in lettere, e l’amica Rashida, figlia adottiva di Swann, sono due ragazze che si affacciano al mondo del lavoro, faticano a trovare il proprio posto, sbattono la faccia contro la precarietà e sono l’unica voce concreta di una realtà instabile, mossa da ambizioni, priva di opportunità, alla quale chiedono solo una cosa, di dire la verità.
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“Come può una come me cavarsela in un mondo così fatto? Tutto ciò che mi definisce è inadatto a questa realtà. La mia passività. Il mio idealismo. La mia innocenza. Semplice, non ho quello che ci vuole”.
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Come in La famiglia Winshaw o Middle England, Jonathan Coe, abituato a considerare la scrittura come atto politico in sé, riflette sui cambiamenti politici e sociali, li affronta e li racconta con satira, con l’umorismo che gli appartiene per natura, con salti temporali, piani cinematografici, con curiosità e acutezza di visione. In La prova della mia innocenza, tra delitti, e intrighi politici, fa emergere l’insofferenza per gli intellettuali, per l’instabilità sociale ed esistenziale, e lo fa con una scelta insolita, sfidante e magistralmente gestita: creare, attraverso la realtà e l’immaginazione, l’illusione dell’autenticità.
È proprio quello che fa, dovunque, la cattiva politica.
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credit foto di copertina: Maria Moratti/Getty Images