Abbiamo visto l’adattamento teatrale di “La vegetariana” del Premio Nobel Han Kang, diretto da Daria Deflorian, con Monica Piseddu a interpretare il ruolo di Yeong-hye – La recensione

Ger-mogli interiori perturbanti perdono corpo

Kiesloskianamente suddivisa in tre colori, tre movimenti imprigionati e liberatori, doloranti e germoglianti (rosso: sangue/mestruo; azzurro chiaro: macchia mongolica/ematoma; e verde: vegetale/alieno), la messa in scena (in corpo e in abisso) della Vegetariana di Han Kang di Daria Deflorian segna un nuovo interessantissimo capitolo degli scavi praticati da questa autrice/attrice/regista/artista attorno e dentro gli oggetti culturali/cultuali che vibrano nelle sue corde (dal connubio creativo felicisiimo quindicennqle con Antonio Tagliarini al percorso intrapreso “da sola” già l’anno scorso con uno studio dell’autrice coreana – Elogio della vita a rovescio, con Giulia Scotti; e se Deflorian leggeva pubblicamente Annie Ernaux e lavorava in profondità su Kang molto prima dell’arrivo dei Nobel, qualche antenna potentissima dell’anima la possiede senz’altro: per ricostruire la traccia significativa del suo percorso teatrale si legga lo sfaccettato e appassionato ritratto critico dedicatole da Rossella Menna Qualcosa di sè, Luca Sossella Editore).

La vegetariana han kang

Dal libro cristallino eppure misterioso e apertissimo della Kang, successo maggiore della scrittrice coreana (tutta pubblicata in Italia da Adelphi: Atti umani, Convalescenza, L’ora di greco, ora in libreria il recente Non dico addio), di cui è rispettata struttura tripartita e testualità, Deflorian (adattamento con Francesca Marciano) costruisce dunque una resa visiva-uditiva, spazio-temporale, una messa in immagini e sensazioni molto acuta, a un tempo fedele (testualmente preciso) e fortemente personale, in cui accetta e restituisce la complessità e l’apertura profonda del testo.

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Un palco/schermo livido descrive un interno umido spoglio kafkiano, su cui si manifestano le tracce di una metamorfosi (una transizione di regno, da animale a vegetale, nuova forma di vita; ma anche un ritiro dal mondo, verso una pace minerale, una sorta di freudiano istinto di morte; e un trapasso verso l’onirico, movente e fine (?) di uno spettacolo inconscio che si libera – eros e thanatos – e si dispiega senza mai spiegarsi).

Le pareti disadorne e scroste sembrano registrare gli indizi di una possessione. La scena (r)accoglie i cocci che da un piccola incrinatura si moltiplicano e si dipartono come schegge taglienti di un qualcosa che si rompe dentro (qualcuno che irrompe?), e squarcia, disegnando un’apocalisse (fine del mondo e rivelazione), ferita e fioritura, universale e intima. E, al tempo, la scena è bara e culla, reliquario e incubatrice, vaso, vasca da bagno, dove si accoccola un corpo stanco e in dissoluzione, e qualcosa pare poter sbocciare.

La vegetariana a teatro, foto di Andrea Pizzalis

La vegetariana a teatro (foto di Andrea Pizzalis)

Certo tutto questo avviene (forse, solo) all’interno della protagonista, un dentro mostrato eppure opaco e segreto, ritratta e incompresa com’è dagli sguardi-parola (voci narranti/punti di vista) di marito, cognato e sorella, attori/narratori/specchi: stralunato nella negazione il consorte freddo che ha la voce incespicante di Gabriele Portoghese, voyeristico, invasato e rapace il marito della sorella interpretato da Paolo Musio, cocreatori di questa restituzione scenica, con Deflorian nel ruolo chiave di testimone vittima-carnefice (parallelo spettatoriale in sguardo samvifico) della sorella maggiore. E questa donna trasparente, remissiva e ordinaria (perfetta e abissale è Monica Piseddu che, nella sua fisicità scavata e ridotta all’osso, si aggira fantasma fra i suoi fantasmi in uno spazio memore del Caffè Mûller di Pina Bausch), seguendo il dettame di un sogno che irrompe improvviso e selvaggio, adotta, con severa serenità, ostinazione inscalfibile e indecifrabile intenzione, la via di un vegetarianesimo ribelle, pacato e pervicace. Lo fa fino all’alienazione da un marito e da una società da cui nella vita ha subito e accumulato, obbedendo e acconsentendo, violenza, sottrazione e indifferenza.

L’anima oscura ed emancipatoria (rivoluzionaria) di questa semplice scelta (un “preferirei di no” di bartelbiana memoria in chiave Zen?), primo passo di una discesa/ascesi (di un farsi tutta anima?) costellata di non detti (si tratta di follia, sogno, iniziazione, cupio dissolvi?), è raccontata anche da uno spazio (scene di Daniele Spanò) emaciato e delabré, essenziale e denudato, in apparenza simmetrico, in realtà pieno di ombre (luci a tratti espressionistici di Giulia Pastori: bellissimo utilizzo diegetico/simbolico di proiettore e trasparenti sul corpo della protagonista silenziosa), fuori campo, ribaltamenti prospettici (il letto verticalizzato, l’inversione yoga praticata dalla donna), pareti che scorrono e squarciano, nascondendo e rivelano.

In questo luogo proiettivo, poco protettivo e molto svelate, interno ed esterno insieme (prigione mistica rothkiana, stanza vuota hopperiana, intimità denudata woodmaniana, in una città sola, per citare un titolo di Olivia Laing che sta molto à cuore alla regista) i personaggi vivono il sogno premonitore, sono mossi da forze che non conoscono, da qualcosa che insieme vedono con la chiarezza e l’urgenza di una vocazione, ma a cui non sanno dare nome e volto, e che in fondo non possono spiegare/spiegarsi.

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Questo luogo nascosto, questa tonalità segreta, quest’atmosfera densa e rarefatta evoca, innesca e concretizza la trasformazione/mutazione che attraversa i personaggi e gli apre all’ignoti (la negazione/violenza del marito, l’arte voyeristica/pulsione erorico-predatoria del cognato, i sensi di colpa e l’ambivalenza della sorella) proiettandosi (e l’uso dei colori gettati sulla sua nudità come pittura gestuale, body art, macchia di Rorschach, è una soluzione intensa, ribadisco) sul corpo in dissolvenza della protagonista.

Con una fedeltà inventiva ma molto rispettosa Daria Deflorian ci racconta non solo e non tanto la superficie del racconto (una storia psichiatrica? una vicenda di corna? un rapporto fra sorelle di fronte alla violenza patriarcale?) ma, senza davvero mai spiegare o risolvere, gli abissi che esso apre. Così veniamo immessi in una sospensione/transizione che tiene insieme la dimensione psicologica, quella culturale e quella estetica, financo metafisica, offrendoci un’esperienza del perturbante, un tempo aperto e spietato che (ci) muta, un corpo che si consuma, più erratico che erotico, che ha i segni del bambino e i sogni ribaltati di una pianta, in cerca di solatie solitudini e innaffiature, terreni fertili.

Il clima propriziato sulla scena, il destabilizzante che attraversa lo sguardo di personaggi e spettatori, è esperienza dell’irreversibile, di quello che dentro si accumula, si rompe e tracima, dell’ombra predatoria che abita i nostri gesti d’amore, della tentazione/destino che abita il nostro corpo, lo stare al mondo come su un palcoscenico precario, uno spazio indecidibile fra segno e sogno, corporeità e qualcosa o qualcun altro che si muove nel profondo e che pure dà corpo e insieme è estraneo.

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Dove vedere lo spettacolo prossimamente:

-a Roma, fino al 3 novembre, al Festival RomaEuropa, al Teatro Vascello;
-a Parigi, al Festival d’Automne all’ Théâtre Odéon (8-16 novembre):
-a Milano, in Teatro Trennale (27-29 novembre);
-a Torino, al TPE Astra (28 gennaio – 2 febbraio 2025);

nota: l’autore dell’articolo ha visto lo spettacolo alla prima assoluta a Bologna al ERT Teatro Arena del Sole il 25 ottobre 2024

 

 

 

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