Leggere Balzac, al di là dei titoli più noti e citati, è una folle avventura, un viaggio in un mondo surriscaldato dal desiderio (di potere, di denaro, d’amore, di conoscenza) che sembra portarci in qualche modo a intravedere una sorta di abisso oltre il racconto, e  persino oltre la vita… Ne parla su ilLibraio.it Mario Baudino

Non c’è mai stato nulla di simile, né mai ci sarà, scrive Peter Brooks a proposito di Honoré de Balzac. Non gli si può dare torto: sta parlando di un autore che ci ha lasciato un’opera di dimensione ciclopiche, La Commedia umana, con 2472 personaggi, tra maggiori e minori, dei quali si dà puntualmente, alla prima comparsa, una biografia,  molto lunga o breve, in qualche caso poche righe; con più di 90 opere pubblicate in vita (avvalendosi dell’aiuto di collaboratori, va da sé, oltre ad alcune postume), molte edizioni fino ai nove volumi della Pléjade, negli anni settanta del ‘900, per un totale che si aggira sulle quindicimila pagine.

Leggere Balzac, al di là dei titoli più noti e citati, è una folle avventura, un viaggio in un mondo surriscaldato dal desiderio (di potere, di denaro, d’amore, di conoscenza) che sembra portarci in qualche modo a intravedere una sorta di abisso oltre il racconto, e  persino oltre la vita.

vite di balzac

Brooks, importante studioso balzacchiano (gli ha dedicato pagine interessanti anche in un libro teorico di parecchi anni fa, Trame) propone ora una sorta di mappa, Vite di Balzac (Carocci) organizzata attraverso le figure più note, paradigmatiche, dell’opera: come Lucien de Rubembré, Rastignac, l’evaso Collin-Vautrin detto Trompe-la-mort, figura possente (e si direbbe molto ammirata dall’autore) di boss della malavita, ma anche omosessuale con desideri travolgenti di paternità; e ancora Esther Gobseck, la prostituta meravigliosa che si sacrifica per Lucien, Raphaël de Valentin, il protagonista di La Pelle di Zigrino, uno dei pochi romanzi fantastici ma anche uno dei più importanti nella dinamica delle scelte balzacchiane; dame tragiche come Antoinette de Langeais (contradditoria eroina di La duchessa di Langeais) o la melanconica Madame de Mortsauf, (in Il giglio della valle) e molti altri.

Il saggio ricostruisce la rete piuttosto complicata dei loro continui ritorni di romanzo in romanzo, magari fugaci e in apparenza casuali, riuscendo a offrirci una sorta di guida ragionata e nello stesso tempo un’analisi critica in gran parte condivisibile, che fa riferimento soprattutto a Freud e al rapporto tra desiderio e principio di piacere: anche per Balzac il soddisfacimento pieno del desiderio è infatti impossibile, ed è legato alla pulsione di morte.  Ora però, una considerazione da lettore fedele e non da specialista: la morte è sempre presente – quasi la fa da padrona. Moltissimi personaggi muoiono, nelle modalità più diverse ma, si direbbe, con alcune costanti.

La morte più celebre è sicuramente il suicidio in carcere di Lucien de Rubempré, il bel giovane delle Illusioni perdute e di Splendori e miserie delle cortigiane che si lascia travolgere un po’ per fatalità romanzesca (quando decide di uccidersi è già virtualmente fuori dai guai, scagionato da una lettera, ma non lo sa) e molto per dabbenaggine. Nonostante la regia attentissima del suo protettore Collin, sbaglia tutte le mosse davvero importanti, anche se non cessa di sedurci con la sua ingenuità, spregiudicatezza e bellezza. Oscar Wilde scrisse che la sua tragica scomparsa era stata per lui uno dei momenti più dolorosi dell’esistenza (ripreso peraltro da un balzacchiano come Marcel Proust), e per venire ai contemporanei non dimentichiamo magari Angelica S. Byatt, che ha confessato di aver sempre considerato Lucien uno stupido, ma di aver pianto sulle pagine del suicidio.

In questa continua strage di personaggi ci sono alcune morti altamente simboliche come quella di Raphaël de Valentin in La pelle di zigrino e, più segreta, quella del pittore Frenhofer in Il capolavoro sconosciuto. Sono due casi in cui davvero il desiderio uccide, perché non può essere mai del tutto soddisfatto: due episodi a buon diritto “freudiani”, soprattutto se pensiamo che il fondatore della psicanalisi, la notte prima di chiedere al medico l’iniezione fatale (il cancro alla mandibola non gli dava tregua, e il dolore resisteva ormai a qualsiasi dose di morfina) lesse un’ultima volta proprio La pelle di zigrino. Il romanzo mette in scena il topos del talismano fatato, caro a un Balzac lettore delle Mille e una notte: è questo il dono (avvelenato) che riceve il giovane De Valentin, proprio quando sta per gettarsi nella Senna causa delusioni, assenza di prospettive e di denaro, debiti di gioco, amori frustrati. Gli viene offerto da un misterioso e vecchissimo antiquario un misterioso pezzo di cuoio (lo zigrino sarebbe una pelle ricavata da squali e altri pesci, usata ad esempio per le rilegature, ma Balzac la attribuisce all’onagro, un asino selvatico originario dell’Asia) dallo straordinario potere; grazie ad essa tutti i suoi desideri verranno soddisfatti, ma al contempo la sua vita sarà abbreviata in proporzione all’entità del desiderio stesso.

La pelle diviene così una sorta di calendario; ogni volta che esegue il suo compito magico si restringe, scandendo il passo della morte. Raphaël, quando comprende il meccanismo fatale, cerca di impedirsi – inutilmente – di desiderare alcunché: è impossibile. Finirà in breve per accasciarsi, benché ricco e potente, fra le braccia della donna amata, dando un disperato morso al suo seno (un ultimo morso alla vita). A me pare importante sottolineare una sorta di sarcasmo implicito. Pauline lo amava già, da quando si erano incontrati, ma Raphaël, in un momento di sconcerto e forse disperazione, ha espresso tuttavia proprio questo desiderio “inutile”, di essere cioè amato. Non basta: proprio all’inizio dell’avventura, lei gli avevo detto: “La donna che amerete vi ucciderà”, e alla fine, sul cadavere del giovane, lancia un particolare grido di dolore: “È mio, l’ho ucciso io, non l’avevo predetto?”

Da un certo punto di vista, questo sembra un problema narrativo di prim’ordine. Chi è che uccide, il talismano o l’amore? Pare una contraddizione. E forse non lo è, se guardiamo ad esempio a Il capolavoro sconosciuto, una delle opere in cui Balzac sembra anticipare l’arte del ‘900. Qui un maestro pittore, di celebrata abilità e tecnica, tiene celato per dieci anni un ritratto muliebre e, quando finalmente decide di mostrarlo (a un giovane Poussin accompagnato da un altro artista realmente esistito, François Porbus) quasi impazzisce di dolore perché i suoi due interlocutori non vedono nulla se non una tela coperta di colori (come fosse un quadro di Pollock) da cui emerge solo una piede di squisita fattura. Lui invece era convinto d’aver raggiunto la perfezione, la verità sulla donna che proprio dal ritratto lo amava, ovviamente riamata, nel desiderio pienamente felice. Nella notte, brucia il quadro e “muore”.

Attenzione, non si uccide, muore semplicemente. Proprio come la duchessa di Langeais, che è fuggita in convento per sottrarsi al grande amore nato improvvisamente (in un contesto sado-masochistico) per un ufficiale napoleonico che per lungo tempo l’aveva corteggiata a lungo, e invano. Quando i due si rivedono, lei lo riconosce come “amante”: ma non fugge con lui, muore. Potremmo fare molti altri esempi (Il giglio della valle, peraltro piuttosto lento come romanzo, dove i personaggi non mutano mai, e l’intreccio è assai prevedibile, e in generale anche gli altri racconti lunghi almeno del Libro dei tredici, di cui fa parte La duchessa di Langeais), senza dimenticare come ricorda ovviamente anche Brooks, che comunque in Balzac “non ci sono molte donne felici (…), e se ci sono la loro felicità è breve”; potremmo inseguirlo romanzo per romanzo e perderci forse per sempre nel Grande Labirinto, ma ci vorrebbe un libro intero.

Quel che conta, proprio dal punto di vista del lettore, è riconoscere che in questi e altri episodi la Commedia Umana, fra la molte cose con cui l’autore ci provoca e ci entusiasma in una corsa senza fine, lui reazionario che per amore del racconto riesce a far parlare autonomamente i personaggi e consentire loro di distruggere proprio le sue, di eventuali illusioni, ha nel suo cuore segreto un’idea romantica e medioevale: che certo può essere rivista alla luce di Freud ma rimane, tuttavia, una pratica e un destino, non solo femminile. È la sua una domanda senza risposta: quella che concerne il “morire d’amore”, posto che l’amore finalmente appagato, come scrisse Denis de Rougemont in un vecchio libro – ma per nulla invecchiato -, almeno in Occidente non sembra aver mai storia.

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