Il desiderio di piacere agli altri è uno dei motori più potenti e feroci dell’animo umano. Cresce sulla paura del rifiuto, si alimenta di invidia, di competizione, del bisogno di essere accettate, e poi anche scelte, nel ruolo di amante, di migliore amica, di protagonista, di prima donna. A raccontarlo è “L’estate verticale”, brillante romanzo corale di Chiara Sfregola: un incastro di voci, una polifonia femminile che in sette monologhi fa parlare donne che si amano, si odiano, si tradiscono, si cercano…

Man mano che la sua vita si faceva interessante ho pensato di interessarle sempre meno, di risultarle insignificante, noiosa, ho avuto paura che se mi avesse conosciuta per come ero, a quest’età, avrebbe deciso che non ero interessante abbastanza da diventare sua amica”.

Il desiderio di piacere agli altri è uno dei motori più potenti e feroci dell’animo umano. Cresce sulla paura del rifiuto, si alimenta di invidia, di competizione, del bisogno di essere accettate, e poi anche scelte, nel ruolo di amante, di migliore amica, di protagonista, di prima donna.

L'estate verticale di Chiara Sfregola

Nello specchio del giudizio altrui si riflettono le insicurezze più profonde, le malinconie sulle quali si costruiscono allontanamenti, assenze, e vuoti, come stagni nel buio, direbbe Ungaretti.

L’estate verticale (Fandango Libri) è un brillante incastro di voci, una polifonia femminile che in sette monologhi fa parlare donne che si amano, si odiano, si tradiscono, si cercano. È una storia di relazioni intrecciate, connessioni e cambiamenti, di trasformazione di se stesse, di pelli che si cambiano e amicizie che si spezzano.

Livia Salles è il collante delle storie: attrice, di una bellezza fredda, algida e siderale, un corpo per sempre acerbo, un po’ uomo e un po’ donna. Livia incarna il sogno, e sulla base di questo è in grado di trasformarsi, svuotarsi di personalità, di letture, di pensieri, adattandosi come una creatura celeste ai bisogni della sua regista Irene.

Le relazioni che uniscono Livia, Irene, la produttrice Chicca, l’amica Cora, l’antagonista dell’infanzia Veronica, e Gaia, e Lena, sono frammenti di un discorso femminile molto coraggioso, che penetra in corridoi bui, e ne emerge con grande sincerità.

La gelosia, il bisogno di controllo, il senso di una maternità da inventare, l’accudimento come forma di possesso sono solo alcuni degli spunti che si innestano nel l’ambiente del cinema, che è ben noto all’autrice, diplomata al Centro Sperimentale di Cinematografia e produttrice, e che diventa una felice situazione “scenica” di vite che si trasformano e interpretano, che plasmano e dirigono, che controllano e assistono alla commedia della vita.  Sono corpi al servizio dell’immaginazione, più che dell’amore, in un gioco di specchi, versioni della storia, che fanno cambiare continuamente prospettiva di osservazione al lettore.

“Quello che vuoi è il possesso totale: dico le cose che scrivi tu, le dico come hai in mente tu, vestita con gli abiti che hai scelto tu per me fra tutte le proposte che ti hanno presentato. Mi hai fatto tagliare i capelli, senza fiatare, e adesso mangio quello che piace a te. La tua felicità è incarnata nella mia obbedienza, e dai confini della tua felicità io so che posso sbordare”.

Il 2001 è l’anno dell’innesco delle contrapposizioni tra Livia e Veronica adolescenti, e diventa qualcosa di diverso dalla competizione scolastica che le aveva sempre unite in uno sforzo di eccellenza: qui il contrasto è venato di lotta sociale, di disuguaglianze di classe, e in un’estate che cambia ogni cosa nel mondo, la rottura coincide per loro con la reciproca presa di coscienza di sé, e le allontana per una vita intera. È terra bruciata, come il primo film che segna l’ascesa di Livia e una sorta di distacco dal resto della realtà, che diventa lontana, avvicinandola invece a nuovi incontri.

Si amano le memorie, scriveva Natalia Ginzburg, e la memoria è fatta anche di immaginazione, aggiunge Chiara Sfregola. La fantasia ricostruisce i ricordi, e dà loro la forma desiderata, quella più giusta, soprattutto con ciò che non si conosce, con i segreti altrui.

Si scompone la realtà, in tessere di memoria, si inventano i ricordi, si cerca di ridare loro concretezza attraverso lettere, riletture della vita, analisi che restituiscono il proprio sguardo e lo fissano nell’altro. Ci si infila nelle case delle amiche, aderendo alla loro identità alla ricerca della propria, assumendola come uno stupefacente, per poi diventarne dipendenti. Si è spettatrici, attrici sulla scena, coprotagoniste, nella necessità di sentire, di dissimulare la propria assenza, invidiando il percorso rettilineo (all’apparenza) delle vite delle altre, in mezzo a una corte di spiantati.

“Ero fatta così: consumavo le amicizie come si consumano le canzoni che si amano, fino a usurarle dal troppo amore, come una tela bucata, fino a non sentire più niente, fino a non sentirle per niente, pronta sempre a riesumarle per qualche playlist”.

Dopo Signorina e Camera single, Chiara Sfregola compie la sua esplorazione al femminile con un romanzo corale tesissimo, pieno di fratture e di una continua alternanza tra presenze e distanze, che racconta le mille fattezze della realtà attraverso sguardi diversi, complessi e veri.

Passandosi il testimone, le “ragazze segrete” de L’estate verticale raccontano se stesse, i propri desideri, le pieghe più intime delle loro vite, gli incroci e le contraddizioni, i propri spazi, il sesso, in un mondo che è solo apparentemente libero, nel quale dichiarare un amore lesbico isola e rischia anche di fermare una carriera.

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Accanto al desiderio in tutte le sue sfumature, in questi monologhi c’è un’altra grande e ingombrante protagonista, la sensazione di essere vuote, inutili. È la sindrome dell’impostore che scava, che crea costantemente paragoni e sfide, che angoscia, mettendo in pausa il tempo in un’attesa perenne, una biglia d’acciaio che scende, che aspetta la botta, la scarica di dopamina per sentirsi ancora vive, mentre il mondo parallelo va avanti.

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