W.G. Sebald è il grande elegista del Novecento, cantore i uomini perduti, emigranti, solitari, travolti dalla storia, reali o immaginati non importa. La conferma arriva da “Tessiture di sogno”: per lo scrittore tedesco auto-esiliatosi in Inghilterra – e scomparso per un incidente stradale a 55 anni nel 2001- alla distruzione si può ben opporre, pur senza troppe illusioni, quantomeno la scrittura. Il volume, dove tornano ciclicamente i suoi temi, è anche, per i lettori più attenti e coinvolti, una straordinaria macchina di scrittura, che mostra il modo di lavorare di Sebald, il suo laboratorio, nell’incessante messa a punto, anche attraverso la saggistica, degli strumenti narrativi…

W. G. Sebald, ovvero il camminatore. Lo scrittore tedesco auto-esiliatosi in Inghilterra – e scomparso per un incidente stradale nel 2001, a 55 anni -, si muove lentamente, in treno o in autobus, e soprattutto cammina, si direbbe nella tradizione romantica del Wanderer, per paesaggi desolati o di cupa bellezza, tra rovine e macerie, ricordi e desideri; ma di romantico c’è ben poco.

C’è semmai l’orrore per la storia e lo scandaglio della memoria, pallido fantasma da rianimare, e c’è soprattutto l’instabilità (pur, in una solo apparente contraddizione, sempre rocciosa) delle cose e delle immagini: sicché all’improvviso il viaggio si arresta o scompare, e un particolare, un’associazione mentale, un nulla aprono la porta di un nuovo racconto, come accade in questo Tessiture di sogno che Adelphi ha appena mandato in libreria (a cura di Sven Meyer, traduzione di Ada Vigliani).

Un esempio: siamo al Musée Fesch di Ajaccio, dove lo scrittore (il soggetto che dice io nel racconto, nello stesso tempo molti prossimo e chissà, forse ancora irriducibile allo scrittore che dice “io” nell’esistenza) si arresta davanti a un quadro in cui scorge, all’improvviso, manifestarsi una delle sue più rocciose certezze, “l’intera e insondabile sventura della vita”.

Tessitore di sogno Sebald

Tessiture di sogno ripropone i testi sulla Corsica già tradotti da Adelphi in Le alpi nel mare (2011) accanto a una serie di saggi usciti in parte su periodici e in piccola parte inediti, ma non si tratta per nulla di un libro ibrido.

È l’ultimo Sebald possibile, pubblicato qualche anno fa in questa versione dall’editore tedesco col titolo – che da noi l’editore ha preferito evitare – di Campo Santo.

Spezzoni di un libro incompiuto: i quattro brani iniziali, quelli appunto dedicati all’isola, rappresentano i materiali preparatori di un’opera che l’autore iniziò negli anni Novanta, dopo Gli anelli di Saturno, e accantonò per dedicarsi a Austerlitz, il quarto romanzo, perfettamente compiuto, forse il suo risultato più alto, e anche il non progettato ma altamente simbolico addio.

Ciò che rimane è l’abbozzo di ciò che sarebbe potuto essere, un testo eventuale, ipotetico, che si dilata ben oltre i quattro racconti còrsi a tutta la saggistica ritrovata: che non è solo saggistica, o non lo è in senso tradizionale.

Sebald è il grande elegista del Novecento, cantore i uomini perduti, emigranti, solitari, travolti dalla storia, reali o immaginati non importa, considerato l’uso delle fotografie che lo scrittore fa nei suoi libri (autentiche o no), in grado di dare sostanza e volti ancora una volta eventuali, ipotetici, a personaggi e paesaggi, al suo scavo in quella distruzione da cui venne per così dire battezzato.

È la distruzione che, dice in un breve discorso all’Accademia tedesca per la lingua e la poesia (l’ultimo brevissimo teso del libro, fulmineo congedo) “presiedette all’inizio della mia vita”; e lui, nato nel ’44, impiegò pochissimo tempo “per comprenderne il significato”.

I saggi ci parlano della guerra, dell’Olocausto, dei bombardamenti sulle città tedesche; della voglia di dimenticare, delle ipocrisie successive, dell’impossibilità o quasi di guardare in volto una verità terribile. E ancora, c’è la storia delle letteratura tedesca post bellica, ci sono Jean Améry e Primo Levi, Peter Weiss o Gunther Grass. Di quest’ultimo, in particolare, Sebald sembra apprezzare almeno un’idea: quella  secondo cui “una democrazia non può avere per unico obiettivo il perseguimento di un’economia sana”.  Non è infatti un apocalittico. È un uomo ferito che cerca, e lo fa attraverso quella che definisce la “prosa”, diremmo la letteratura.

Tessiture di sogno, dove tornano ciclicamente i suoi temi, è anche, per i lettori più attenti e coinvolti, una straordinaria macchina di scrittura, che ci mostra il modo di lavorare di Sebald, il suo laboratorio, nell’incessante messa a punto, anche attraverso la saggistica, degli strumenti narrativi.

Il confronto con Austerlitz è illuminante: in quel romanzo così compatto ritroviamo elaborati non solo spunti ma interi passi sparsi tra questi saggi, quasi che là vengano infine portati a compimento.

Ci limiteremo a un incrocio piuttosto interessante, partendo da un brano, quello sul cimitero di Piana, dove Sebald parla dei morti rifacendosi alla scrittrice Dorothy Carrington, che narrava la leggenda, appresa da un còrso, secondo cui tra gli spiriti si potevano incontrare anche amici e parenti defunti, riconoscibili perché “a tutta prima, costoro sembravano persone normali, ma non appena li si guardava con particolare attenzione, i loro volti perdevano nitidezza e tremolavano”.

La pagina ci riporta a un passo di Austerlitz dove il narratore ascolta il calzolaio di un piccolo borgo del Galles, in cui si è rifugiato, discorrere della sorte dei morti, spesso colpiti anzitempo dal destino e desiderosi di tornare al mondo, che “a tutta prima sembravano persone normali, ma se li si fissava con particolare attenzione, i loro volti sparivano o tremolavano un poco ai bordi. Inoltre, erano quasi sempre di una spanna più piccoli di quanto non fossero da vivi, perché l’esperienza della morte… ci rimpicciolisce”. E se torniamo a Tessiture di sogno, ecco Kafka, “che in mezzo ai suoi simili si era spesso sentito anche lui un fantasma, sapeva con quanta insaziabile avidità i morti girano attorno a coloro che non sono ancora trapassati”.

Si potrebbero trovare molti altri slittamenti simili, anche su particolari in apparenza secondari che diventano enormi e inevitabili: come il colpo “con il manico della pala” che il guardiano sferra al prigioniero del lager, letto in Jean Amery e citato puntualmente sia nelle Tessiture sia in Austerlitz. L’elaborazione di Sebald è circolare ed incessante: perché alla distruzione si può ben opporre, pur senza troppe illusioni, quantomeno la scrittura.

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