Da “IT” a “The OA”, passando per “I Need My Girl” dei The National: su ilLibraio.it la riflessione di Marta Zura-Puntaroni in occasione dell’uscita del suo nuovo romanzo, “Noi non abbiamo colpa”, che si apre con un ritorno a casa

Da bambina avevo la sensazione che i viaggi di ritorno fossero estremamente più brevi di quelli di andata. Potevo capire che l’ansia di arrivare, non lo so, alla casa al mare per le vacanze estive potesse in qualche maniera falsare la percezione della mia mente infantile, ma questo avveniva per qualsiasi spostamento, anche quello più banale. Quando mi sono trasferita lontana da casa mia, per l’università e poi per lavoro, ho continuato a valutare i luoghi dove vivevo secondo una gerarchia, in cui la “casa” vera era sempre quella che era percepita come più veloce da raggiungere, rendendo il viaggio un ovvio ritorno.

Ho scoperto qualche mese fa che quello che credevo un fenomeno privato, anzi quasi una mia personale unità di misura per giudicare il mio affetto nei confronti di un luogo, in verità aveva addirittura un nome: return trip effect.

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Alla fine, quello che succede in Noi non abbiamo colpa, ovvero che un libro si apra con un ritorno a casa, è molto più raro che non il contrario, e cioè che il ritorno a casa lo chiuda: spesso tutto quello che accade a un protagonista è pensato per farlo tornare a casa dopo che qualche evento lo ha allontanato – da un Ulisse a Frodo, passando per Dorothy e Scarlet: persone che per un motivo o per l’altro se ne vanno o sono costrette ad andarsene, e che passano il libro a tentare di tornare, o, in un certo senso, a rendersi conto che desiderano tornare. Dorothy mentre batte i tacchi delle sue scarpette – rosse o argento, a seconda della versione che si preferisce – desiderando di tornare in Kansas raggiunge la conclusione che “There’s No Place Like Home”; Scarlett dopo essere lasciata da Rhett non può fare a meno di tornare a Tara.

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Il libro che mi ha insegnato di più sul tornare a casa, o meglio al paese, per affrontare i propri demoni – in quel caso letteralmente – è IT. I Perdenti lontano da Derry hanno esistenze di successo, sono spesso ricchi se non proprio famosi, non avrebbero nessun motivo per tornare al paese natale se non per la promessa fatta durante l’infanzia. Sospendere una vita che sta andando, almeno apparentemente, nel verso giusto per fare i conti col passato è un’attività complessa e dolorosa – che può prendere la forma di un’entità malefica millenaria e aliena o quella, più banale, di una malattia in famiglia.

La serie che scelgo per questa piccola selezione sul ritorno è The OA: qualcosa di impossibile da riassumere semplicemente nella sua trama, intesa come successione di eventi, ma che sicuramente inizia con un ritorno. Prairie, ragazza non vedente fuggita di casa e scomparsa per sette anni viene finalmente ritrovata, e ha recuperato la vista. Questo non sarà l’unico ritorno di Praire all’interno della serie ma ci sono ritorni a svariate case in svariate vite di svariati universi in tante altre serie erano più adatte allo scopo. Cito The OA perché è la più bella serie girata negli ultimi anni, un oggetto quasi doloroso nella maniera in cui riesce a essere autentico, privo di sovrastrutture ironiche, sincero, e ogni occasione è buona per convincere qualcuno a vederlo, e soprattutto per poter condividere la rabbia con Netflix per non averlo rinnovato dopo la seconda stagione.

Poi, una canzone: la tentazione iniziale sarebbe stata scegliere I Need My Girl dei The National: non so se sia un pezzo che parla del ritorno a casa – sicuramente parla della nostalgia, dalla sofferenza dello stare lontano – ma una strofa in particolare mi ha fatto sempre credere di sì. Quando “Devy says that I look taller” penso sempre ai commenti che fanno su di me e sul mio aspetto fisico i vecchi del paese ogni volta che sono tornata dopo tanto tempo. Però, come dicevo, è difficile dire se effettivamente sia questo il significato del testo o se è solo una mia interpretazione, quindi mi viene naturalmente scegliere un altro brano, che per un periodo era stato assieme a Charles Manson e D’Annunzio nelle epigrafi di Noi non abbiamo colpa, poi rimosso perché considerato un po’ melenso: Take Me Home Country Road di John Denver.

“I hear her voice in the morning’ hour, she calls me – the radio reminds me of my home far away – drivin’ down the road, I get a feel in’ that I should’ve been home yesterday, yesterday.”

Noi non abbiamo colpa Marta Zura-Puntaroni

L’AUTRICE – Marta Zura-Puntaroni è nata a San Severino Marche e vive a Siena, dove ha studiato letteratura ispanoamericana. Dopo Grande era onirica, il suo romanzo d’esordio uscito nel 2017, torna sempre per minimum fax con Noi non abbiamo colpa.

Marta ritorna nelle Marche. Il paese è caldo e confortevole, ci sono le amiche di sempre che ti accolgono e non ti fanno domande, contente che tu sia di nuovo lì con loro. Ci sono il bosco e le sue storie, che continuano lungo le generazioni. Ci sono le badanti straniere, che cambiano ancora prima che tu possa rammentarne il nome perché stare dietro alla nonna malata di Alzheimer è davvero duro, e appena trovano qualcosa di meglio scappano. Marta diventa a sua volta una sorta di badante, ritorna al paese per aiutare sua madre a gestire la situazione, la quotidianità capovolta. Si trova ad affrontare una malattia che non brucia veloce in un’esplosione di sofferenza per poi placarsi (nella guarigione o nella morte) ma che giorno dopo giorno, per ore che sembrano infinite, lavora a togliere umanità, a farti dimenticare chi era prima, nella sua interezza e nelle sue contraddizioni, quella persona che ora dimentica tutto.

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