Spesso, in questi anni, è stata citata a proposito del “mansplaining”, ma le battaglie della saggista americana Rebecca Solnit sono partite molti anni prima. Ne è la conferma il memoir “Ricordi della mia inesistenza”, un viaggio a tratti poetico e a tratti doloroso, in cui si incontrano storie di violenza, atti drammatici e ingiustizie, ma anche momenti di felicità e di stupore – L’approfondimento

Nel 2018 la parola mansplaining entra nell’Oxford Dictionary per definire l’attitudine tipica di certi uomini a spiegare alle donne qualcosa di non richiesto con condiscendenza e paternalismo. Prendiamo un esempio: a un party un uomo parla con una scrittrice che ha appena pubblicato un libro su un noto fotografo americano. La donna inizia a raccontare del lavoro di ricerca dietro al suo libro, ma viene interrotta dall’uomo che le chiede se piuttosto ha letto un altro libro uscito quell’anno sullo stesso fotografo. La donna a quel punto conferma di averlo letto e addirittura scritto.

Da dove venga la parola, è presto detto: un articolo di Rebecca Solnit del 2008 dal titolo Men Explain Things to Me: Facts Didn’t Get in Their Way, dove la saggista americana racconta esattamente l’esperienza descritta sopra.

Benché il nome di Solnit sia entrato nella cultura mainstream a partire dalla pubblicazione di questo saggio e grazie alla viralità della diffusione del termine mansplaining, in realtà la sua presenza nelle librerie di una certa cerchia di lettori progressisti americani, attenti a questioni ambientali, all’opera di artisti queer e indiani americani o interessati alla psicogegrafia, data almeno tre decenni prima.

Rebecca Solnit

Solnit a lungo è stata un’autrice di culto. Sin dagli anni ‘70 ha preso parte a numerose proteste e sit-in contro il nucleare, ha scritto di spedizioni in Antartide, comunità indiane, di Alzheimer, della bellezza del perdersi, ma anche di numerosissime città, da San Francisco a New York, e dell’immaginario connesso alle grandi distese dell’American West.

A partire dagli anni Zero la sua scrittura si è sempre più orientata verso una riflessione sullo spazio occupato dalle donne e dalla loro voce nella nostra società (in particolare americana) e sulla violenza epistemica e di genere. Dopo il saggio Men Explain Things to Me: Facts Didn’t Get in Their Way il discorso è proseguito con la raccolta omonima del 2012 Gli uomini mi spiegano le cose. Riflessioni sulla sopraffazione maschili (Ponte alle Grazie, 2017) e The mother of all questions, uscito negli Usa nel 2014.

Pur concentrandosi sempre più su questioni di genere, i suoi interessi originari sono però rimasti immutati, come dimostra la pubblicazione di Chiamare le cose con il loro nome. Bugie, verità e speranze nell’era di Trump e del cambiamento climatico (Ponte alle Grazie, 2019) che affronta la spinosa questione dell’emergenza climatica durante il periodo della presidenza Trump.

Per molti versi, seppure non per gli interessi specifici, il lavoro di Solnit è affiancabile a quello delle grandi saggiste-giornaliste progressiste americane, come Joan Didion o Susan Sontag, seppure la sua lama sia meno affilata, come in fondo meno “ingombrante” è la sua figura.

Proprio sull’”ingombro” si sofferma spesso la sua riflessione, incentrata a rendere visibile ciò che è invisibilizzato: l’ambiente, gli artisti queer e indiani del grande West, e soprattutto le donne. Un fil rouge attraversa infatti le inchieste e le riflessioni di Solnit riguardo a quanto è marginalizzato da un potere maschile bianco e cisgender, un potere pervasivo che violenta, ma anche che toglie voce con l’accondiscendenza.

Di questo filo, che è poi di fatto la sua vita ed esperienza, Solnit parla nel suo recente memoir Ricordi della mia inesistenza (traduzione di Laura de Tomasi) uscito per Ponte alle Grazie.

Nel suo primo libro dichiaratamente personale, nonostante i saggi siano tutti permeati dalla sua presenza, Solnit racconta il suo percorso di formazione, scoperta e lotta. Parla del trasferimento a San Francisco, del senso di libertà trovato nel rendersi indipendente, ma anche degli ostacoli e delle discriminazioni incontrate nel suo percorso editoriale e di donna.

Racconta alcuni episodi di tentata violenza o molestia, gli anni di vita ai limiti dell’indigenza, gli anni di “inesistenza” in cui si è formata la sua coscienza politica. Riconosce lo stato di privilegio di cui gode, ma si muove oltre il personale per cercare di dare forma a un’alleanza sufficientemente forte da potersi fare avanti e reclamare il proprio spazio in una società che continua a silenziarla.

La scrittura è lo strumento con cui ha dato forma alla sua identità, ha espresso il suo pensiero e i suoi desideri:

“I problemi erano insiti nella società e forse nel mondo in cui mi trovavo, e se volevo sopravvivere dovevo anche cercare di comprenderlo e alla fine cercare di trasformarlo, non solo per me stessa, ma per tutti. Però c’erano dei modi per rompere il silenzio che era parte del dolore, e c’era la ribellione, e l’inizio di qualcosa; si iniziava a raccontare le storie mie e delle altre. Una foresta non di alberi ma di storie, e la scrittura che apriva sentieri per attraversarla”.

Ecco allora che Ricordi della mia inesistenza diventa proprio il racconto del viaggio attraverso la foresta di storie che Solnit ha immaginato con la sua scrittura. È un viaggio a tratti poetico e a tratti doloroso, in cui si incontrano storie di violenza, atti drammatici e ingiustizie, ma anche momenti di felicità e di stupore.

Con questo libro, Solnit riattraversa la sua storia e i suoi traumi e riordina i pezzi che ha sparso nello sue opere. Ritraccia lo spazio intercorso tra l’esperienza di allora e il presente e riassembla il tutto con l’oro per dargli nuova vita come nell’arte giapponese del kintugi.

“Talvolta rivisiti il passato, come ho fatto io in questo libro, per mappare la distanza che hai coperto. C’è chiusura e riapertura e alle volte qualcosa si riapre perché puoi metterci dentro qualcosa di nuovo, ripararlo in modo diverso, comprendendolo in un modo nuovo. A volte, aggiungendo nuovi capitoli, cambiamo il significato dell’inizio della storia”.

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