Tra saggio e memoir, “Corpi che contano” di Nadeesha Uyangoda (che torna dopo “L’unica persona nera nella stanza”) approfondisce il rapporto tra corpo e pratica sportiva, e pone domande per ragionare sui corpi razzializzati nello sport, offrendo strumenti di analisi per cercare punti di vista utili e per confrontarsi sugli strumenti migliori per raccontare lo sport oggi. L’intervista all’autrice, che racconta: “Tutti i capitoli partono da un ricordo del mio corpo. In alcuni casi è un processo che è riuscito. Penso al capitolo sul cricket…”
La prima volta che incontro Nadeesha Uyangoda è per l’organizzazione di un panel durante l’edizione di Bookpride 2023 a Milano: l’appuntamento era Il corpo e la lingua: come raccontare lo sport di oggi e credo che questo titolo bene rappresenti il terreno di indagine e interrogativi – costanti e imprescindibili – che accomuna entrambe. Durante quel momento di confronto il tema era provare a capire se in alcuni contesti mediatici o istituzionali ci fosse una porta da spalancare per rendere lo sport più inclusivo, facendolo attraversare da un racconto contemporaneo e attento, che si ponesse domande sugli strumenti che utilizza.
Corpi che contano di Nadeesha Uyangoda (66thand2nd) fa anche questo: pone domande per ragionare sui corpi razzializzati nello sport e fornisce strumenti di analisi per cercare punti di vista utili e per confrontarsi sugli strumenti migliori per raccontare lo sport oggi.
Credo che Corpi che contano sia una conversazione che, come autrice, instauri con un lettore modello. Mentre scrivevi hai pensato a chi è il lettore di questo libro e a cosa ha in comune, se ce l’ha, con L’unica persona nera nella stanza, il tuo primo libro?
“Quando ho scritto L’unica persona nera nella stanza alcune opinioni della critica lo definivano un testo ambiguo, nel senso che a volte utilizzavo un noi che poteva essere riferito alle persone razzializzate italiane, alle persone italiane bianche o a una commistione dei due soggetti. Questa ambiguità si rifletteva anche nel genere a cui si appoggiava il libro. Con quel libro ho pensato che ci fosse un pubblico preciso di riferimento (gli italiani di seconda generazione ad esempio), ma il mio pubblico non era sempre quello che in effetti si presentava agli eventi o comunque non il solo. Quando ho scritto Corpi che contano non ho pensato a un lettore ideale, anche perché non sapevo chi potesse essere interessato a un testo del genere. Mi sembra un libro di nicchia – si riferisce allo sport con un taglio di razza, di classe e di genere – che fa tanti affondi attorno a cose piccole. In effetti ci può essere l’idea in generale che io abbia uno zoccolo duro di lettori che possa essere interessato anche a questo secondo libro, ma non ne sono certa; io sono di carattere pessimista e questo mi sembra un testo che ha un altro tipo di pubblico. Ho cercato un contatto con l’altro libro per il carattere personale/politico e di memoir ma, allo stesso tempo, mi sembra di averlo declinato su un altro fronte. Come se quel libro potesse diventare quasi una serie, uno sguardo su tanti aspetti della comunità razzializzata in Italia”.
In Corpi che contano accompagni le riflessioni più oggettive a racconti tratti dalla tua esperienza diretta nell’esercizio pratico dello sport. Declini ogni capitolo partendo dal tuo corpo e da una disciplina sportiva specifica.
“Il testo ha subito diversi rimaneggiamenti e il risultato finale è un po’ diverso da quello iniziale, soprattutto da un punto di vista di andamento e di struttura. Tutto ha preso piede dal capitolo sul cricket, che era quello che disegnava un cerchio e partiva da me e da un ricordo che avevo dello sport e del mio corpo per poi tracciare una linea tra lo Sri Lanka e l’Europa, l’Italia. Era il capitolo più completo e sembrava quello che reggesse di più come struttura e ho cercato di adattare episodi e temi che avevo in mente a quella linea”.
Che tipo di scelte hai fatto per selezionare i diversi capitoli e quindi le tue esperienze?
“Ho fatto una scelta su esperienze più vicine al corpo e alla memoria che ho del mio corpo. Ho praticato altri sport oltre quelli inseriti nel libro, come la danza, ad esempio, ma ho deciso di lasciare fuori questa esperienza perché non sono in grado di elaborarla in modo completo e sfaccettato come in altri casi. Non conosco la danza oggi in Italia, ma ho invece più riferimenti sugli Stati Uniti per quanto riguarda le danzatrici nere, ad esempio”.
Una delle premesse più interessanti che inserisci alla scrittura stessa di Corpi che contano riguarda la relazione del tuo corpo con le cicatrici, con i segni viventi che lascia lo sport e con il desiderio di cercare quei segni. C’è qualcosa che hai chiarito sul tuo corpo dopo la scrittura di questo libro?
“Ho una memoria di ferro (mi piace crederlo, almeno), e tendenzialmente ricordo tutto o mi sembra di ricordare tutto; però mi rendo conto che la mia memoria può essere fallace e alla memoria cerebrale viene data un’importanza superiore rispetto a quella di altri organi. Invece penso che il corpo, la cute, lo scheletro, i muscoli abbiano una propria memoria che non viene quasi mai considerata e di cui io stessa fatico a raccogliere i ricordi. Ho praticato tanti sport, però, la memoria del mio corpo rispetto all’esperienza sportiva di alcuni quasi non esiste, perché il mio corpo non si ricorda tutto, perché il movimento non sempre è stato talmente incisivo da creare una cicatrice sul mio corpo: mi è sembrato di doverla mettere per iscritto per poterla recuperare”.
Hai ricordato o anche solo ripensato a una cicatrice che pensavi di non avere?
“Tutti i capitoli partono da un ricordo del mio corpo. In alcuni casi è un processo che è riuscito. Penso al capitolo sul cricket. Il ricordo di aver visto persone giocare e io stessa di aver giocato era un ricordo sommerso da tutti i chilometri che ho fatto e dal tempo che è passato da quel momento, ma l’ho recuperato e l’ho legato a cosa è il cricket oggi in Italia. Credo che ripetere le medesime azioni con il corpo che facevamo altrove, anche a molta distanza, conservi dentro ad esso il ricordo e lo riaccenda, in qualche modo”.
Passiamo al titolo: Corpi che contano che potrebbe fare presto eco a un altro Corpi che contano, quello di Judith Butler. Quali sono le somiglianze o i ponti fra i due testi se ci sono e i modi in cui te ne sei distaccata?
“Corpi che contano di Judith Butler è molto più puntuale; lei è una studiosa di dinamiche di genere, ha un approccio totalmente diverso dal mio, anche in termini di linguaggio. Il suo Corpi che contano è molto più un saggio. Ciò che mi incuriosiva, però, leggendo quello e altri testi collegati, è proprio il collegamento: i corpi che contano declinato su altre varianti (corpi che contano nello sport, in una ricerca che declinava Butler da un punto di vista sportivo, corpi che contano con un approccio antispecista). Mi affascinava l’idea di prendere quel tema e declinarlo su qualcosa d’altro”.
Scrivi che il corpo sportivo non è mai neutro: conserva il sé e il tutto, prospettive e punti di vista interi. La sua proiezione si ferma a un certo punto, perché incontra lo sguardo di chi osserva. Quanto influisce l’esperienza del corpo di chi osserva nel modo in cui osserva il corpo di qualcun altro?
“Al netto di patologie riguardanti il dismorfismo corporeo, a volte ho la sensazione che l’essere umano sia più tollerante verso il suo corpo di quanto non lo sia con quello degli altri, quindi se rivolgiamo lo sguardo a noi stessi siamo più dolci; lo sguardo che rivolgiamo agli altri mi sembra invece più sporco, perché l’idea stessa di sguardo lo è: c’è un modo di guardare gli altri che è sporcato da concetti e strutture e stereotipi oltre noi e prima di noi. Disfarsi di questo sguardo è molto difficile. Forse servirebbe la stessa dolcezza per guardare gli altri”.
Può interessarti anche
Credi sia possibile separare l’esperienza del proprio corpo e ciò che si guarda dal racconto del corpo altrui?
“A volte desideriamo un corpo perché vogliamo assomigliargli e in questa somiglianza adattiamo strutture preesistenti che abbiamo oppure lo giudichiamo. Di fatto quindi una scissione c’è già, ma è una scissione che giudica, soprattutto quando questo corpo viene dal margine o da altre geografie. Il corpo dell’atleta è un mito (quello bianco, maschio), è il corpo perfetto, nel libro dico ‘è così perfetto che sembra una bestemmia’, però quando innalziamo un corpo a questo ideale lo facciamo rafforzando una serie di stereotipi e preconcetti e in nome di quel corpo tutti gli altri perdono spazio e validità”.
In un capitolo del libro ti soffermi sulle identità di genere performanti e accenni alla specificazione linguistica “femminile” rispetto allo sport, specificazione ridondante ma necessaria, dici. Quando non sarà più necessaria? Che prospettiva vedi a riguardo?
“Il calcio è stato per così tanto tempo degli uomini che dire calcio femminile lo rende più reale e gli toglie la patina di invisibilità che lo caratterizza, ma allo stesso tempo sappiamo che non dovrebbe essere così. Sembra che un certo sport sia solo dei maschi. Spero che arrivi un giorno in cui non ne avremo più bisogno, ma anche se restasse la specificazione, mi sembrerebbe un modo di rivendicare da un punto di vista linguistico uno spazio che un tempo era fatto in un altro modo; diventerà un ricordo di ciò che era”.
Scopri il nostro canale Telegram

Ogni giorno dalla redazione de ilLibraio.it notizie, interviste, storie, approfondimenti e interventi d’autore per rimanere sempre aggiornati

Uno degli spazi di discussione che affronti è quello dello sport come modello e via di integrazione che è però un concetto, secondo te, errato. Da cosa dovrebbe essere sostituito?
“Da un punto di vista sociale, penso che l’integrazione sia sempre un concetto difficile da elaborare, perché non è un processo paritario: c’è un gruppo che si integra nel gruppo maggioritario perdendo certe caratteristiche e mi sembra sempre una dinamica di potere non necessaria. Ciò che noi chiamiamo processi di integrazione avvengono molto naturalmente, quando si nasce e si cresce in un luogo si diventa parte integrante di quel luogo. I processi possono essere utili ma se sono volti a far perdere qualcosa ecco che quel processo non mi sta bene e molto spesso c’è una perdita linguistica, culturale o sportiva. Lo sport è sempre raccontato come terreno di integrazione: se un bambino di seconda generazione gioca a calcio lo si pensa come integrato, ma di fatto ha subito una perdita, perché la sua preferenza poteva essere il cricket, ma non tutti gli sport hanno lo stesso valore e riconoscimento nella nostra società. Alcuni vengono delegittimati con norme che ne impediscono di fatto la pratica, e solo perché non hanno lo stesso valore di un altro”.
Può interessarti anche
In un capitolo del libro scrivi che lo sport nasce e si trapianta e muore per mano degli uomini e che oggi è difficile immaginare una parabola di liberazione attraverso lo sport. Non c’è “speranza alcuna” e in assoluto per nessuna categoria oppressa?
“Sono pessimista. Non c’è speranza. Da un lato per gli sport mainstream il capitalismo gioca un ruolo importante, e dove il capitalismo si ferma, quando va bene, c’è un dilagare di patriottismo, e quando va male il dilagare del nazionalismo. Secondo me non c’è una possibilità di intendere lo sport come uno strumento di potere rivoluzionario, come lo si intendeva una volta. Se penso a una ipotetica liberazione penso alle popolazioni aborigene o native, ma anche in quel caso quando i soggetti prendono parte con il proprio corpo a manifestazioni politiche vengono marginalizzate”.
Scopri la nostra pagina Linkedin

Notizie, approfondimenti, retroscena e anteprime sul mondo dell’editoria e della lettura: ogni giorno con ilLibraio.it

Parliamo del “lusso del tempo” e dallo sport come tempo libero che è un concetto escludente e per alcune persone una conquista precisa. Citi anche l’esempio di tua madre. Tra i ringraziamenti del tuo libro fai riferimento a un “lusso del tempo” che hai avuto per scrivere. Che relazione c’è, se c’è, tra la tua esperienza di scrittura di questo libro e l’esperienza che descrivi relativa a tua madre?
“C’è un sillogismo implicito fra sport, tempo libero e scrittura. Se da un lato devo ammettere che ho più tempo libero di mia madre per condizione (lei è una immigrata, io sono cresciuta in un paese occidentale) dall’altro so che se sei donna hai sulle tue spalle un lusso del tempo ancora ben presente rispetto agli uomini (la cura in generale, dei figli, della casa, degli animali domestici è delle donne). Questo ti toglie tempo di scrivere come di correre. E poi c’è un elemento di classe”.
Quale?
“Penso che molte donne siano riuscite a ottenere più tempo libero sottraendolo ad altre donne, donne come mia madre. Provenendo da quella categoria, non sono riuscita a ritagliarmi altro tempo libero e quindi questo mi sembra un lusso. La residenza a cui fai riferimento, Art: Omni Writers, mi ha davvero regalato il lusso del tempo, non è stata un’esperienza cool, perché mi ha davvero regalato un bisogno primario: il tempo per poter fare un lavoro di tipo creativo che richiede un tempo diverso rispetto a quello che noi scrittrici donne o donne in generale dedichiamo alla cura. Le donne che fanno lavori creativi o donne working class che fanno lavori creativi precari fanno tanti lavori per potersi permettere qualcosa – casa, affitto, tempo libero – e il tempo del lavoro è sottratto al tempo libero. Le due cose sono per me collegate, è un corto circuito: non abbiamo tempo di scrivere, di correre e sembra quasi che le cose siano migliorate a un certo punto, ma non è migliorato per tutte”.
Può interessarti anche
Sognando Beckham è un film che citi per far riferimento al tema della rappresentazione. Quando uscì era il 2002 e in quel momento, ma anche oggi, viene preso in considerazione quasi solo come espressione di emancipazione femminile attraverso il calcio, tralasciando, o nel migliore dei casi mettendo in secondo piano, l’aspetto invece della razzializzazione, che è invece l’aspetto che ha avuto su di te un effetto “rivoluzionario”. Se oggi dovessi pensare a un Sognando Beckham che possa dare a qualcuno ciò che ha dato a te che cosa dovrebbe raccontare e rappresentare?
“Sognando Beckham è stato recepito in questo modo in Italia e non nel Regno Unito, perché nessuno qui ha un legame con una comunità sud-asiatica così stretto come il Regno Unito. Se dovessi pensare a un rivoluzionario Sognando Beckham penserei oggi a due rappresentazioni”.
Quali?
“La prima è quella della disabilità, perché lo sport per le persone disabili sembra sempre eccezionale; ne sentiamo parlare solo durante le Paralimpiadi e penso ci sia poca consapevolezza rispetto alla possibilità di praticare sport per un corpo disabile. Si trasmette l’idea di un corpo perfetto solo quando è fatto in un certo modo ed è performante da un punto di vista atletico”.
E la seconda?
“L’altra è quella della povertà: il tennis, ad esempio, è uno sport costoso e ce ne sono tanti altri che, per quanto belli o che ci possono piacere, sembrano sempre difficilissimi da praticare o conquistare perché sono costosi. Vorrei vedere qualcosa che rappresentasse lo sport non come una conquista o come condizione del capitalismo, senza nazionalismo, ma come qualcosa che lo riportasse al popolo come occupazione del tempo libero”.
Scopri le nostre Newsletter

Notizie, approfondimenti e curiosità su libri, autori ed editori, selezionate dalla redazione de ilLibraio.it

Fotografia header: Nadeesha Uyangoda, nella foto di Maria Moratti/Getty Images (17-10-2024)