“Steffi Graf. Passione e perfezione” di Elena Marinelli è un’opera che esplora l’ascesa della tennista tedesca, unica nella storia ad aver vinto il Grand Slam e la medaglia d’oro olimpica nello stesso anno. Un libro tanto lontano dalle biografie sportive quanto vicino all’epica antica: un omaggio letterario alla campionessa silenziosa che ha stupito il mondo con la sua potenza – L’approfondimento

Gli appassionati di tennis conoscono il modo in cui la campionessa tedesca Steffi Graf colpiva la palla forte, molto forte, facendosi strada tra i mostri del passato e le promesse future. Ma il percorso verso la vittoria, i sacrifici e le emozioni rimangono un gioco ancora tutto da decifrare. 

Steffi Graf. Passione e perfezione (66thand2nd) è l’immersione che Elena Marinelli, già autrice del romanzo Il terzo incomodo (Baldini+Castoldi, 2015) e collaboratrice de ilLibraio.it e L’Ultimo Uomo, compie verso l’idolo silenzioso che le ha segnato la vita con un dritto potente. Non si tratta, quindi, di un biopic giornalistico, di un commento a bordo immagine. Ma, forse, di una biografia poetica che ripercorre l’epica di una delle più grandi campionesse di tennis, che non trascura la ragazza laconica, severa, insondabile al di fuori dei campi. La missione letteraria è quella di avvicinarsi con la scrittura alla solitudine dei numeri uno, e fare sì che tutti, noi compresi, ci sentiamo meno soli.

Elena Marinelli

Elena Marinelli (foto di Eleonora Festari)

Da bambina le Barbie hanno già perso i connotati umani: quando Steffi le regge in mano diventano subito racchette pronte a colpire palline invisibili.

In uno dei passaggi più celebri di Infinte Jest, David Foster Wallace dichiara che il tennis è il perfetto connubio tra scacchi e boxe; Peter Graf, quando vede sua figlia giocare nel seminterrato, sotto una rete troppo alta tesa tra i mobili, capisce che la bambina dispone dell’esplosività di un pugile. Ora bisogna farle comprendere lo spazio, usare l’avversario come farebbe uno scacchista.
Il primo campo Steffi lo calpesta a cinque anni, e a tredici la passione del padre diventa motivo di fierezza quando conquista il titolo di campionessa europea under 18. Corre l’anno 1982, Steffi esordisce da professionista, ma il mondo là fuori è ancora governato dai mostri sacri degli anni ’70 come Tracy Austin, che la liquiderà sul campo e in conferenza stampa dicendo di lei che è brava, ma che esistono centinaia di tenniste come lei negli Usa. La profezia si rivela in parte giusta, quando nel 1983 entra nel ranking WTA ricoprendo la posizione numero 124. Nel mondo.

Il rischio è che si bruci il fisico, che le gambe sottili come stuzzicadenti cedano in fretta, che si monti la testa per un’ascesa troppo fulminea. Così Steffi fuori dal campo sembra non esistere, non si concede a quelli che saranno per sempre i suoi veri rivali, i giornalisti. L’unico appoggio reale sembra il padre, figura in cui distilla il ruolo del coach, del manager, del migliore amico. Questa simbiosi con l’ombra paterna le vale presto la posizione numero 6, ma in semifinale agli US Open del 1985 ad attenderla c’è Martina Navrátilová, la numero uno indiscussa. È lì che l’Olimpo del tennis femminile accusa la prima scossa tellurica. Il pubblico vede la campionessa tremare sotto i dritti violenti della ragazzina tedesca, tanto esile quanto incontenibile. Ma c’è qualcosa che le manca: i rovesci sono ancora colpi monchi, i servizi troppo incerti per dare sicurezza.

Il segreto di Steffi è sempre lo stesso, far finta di niente, ma dentro coltivare il desiderio di arrivare più in alto di tutte: sa che dovrà trovare un modo di fare il torto agli dei, a un certo punto, e uccidere la madre tennistica – le madri”. Dal 1986 Peter ha preso in mano la vita di Steffi: niente amici, niente uscite, solo tennis e sudore. Il bivio è l’US Open del 1987, perché Steffi è professionista da quattro anni e non ha ancora vinto uno Slam

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Però quello che succede a al Roland Garros non è un miracolo, ma il perfezionamento cocciuto dei punti deboli, la conquista della sicurezza nelle zone d’ombra. Dopo sei incontri negli ultimi due anni, Steffi riesce finalmente a disarcionare Martina Navrátilová, dichiarando al mondo che nulla sarà più come prima.

Ma Steffi non è ancora nata, perché il suo mito nasce nel 1988, anno in cui conquista il Grand Slam –Roland Garros, US Open, Australian Open e soprattutto Wimbledon– e afferra anche quello che nessun altro ha mai osato: vince la medaglia d’oro olimpica, un quintetto di glorie che nessun altro conquisterà mai nella storia. Nemmeno i colleghi uomini, che smettono di guardarla dall’alto.

Da quel giorno in avanti, vincere per Steffi significa non perdere, tenere saldo il titolo di numero uno più a lungo possibile, opporsi alle giovani avversarie che tenteranno di spodestarla. “Nessuna adolescente vuole essere Steffi, perché Steffi Graf adolescente in realtà non esiste. Nessuno la conosce, nessuno ci ha mai parlato. Vogliono solo prendere il suo posto”. Tra queste ci sono Gabriela Sabatini, Arantxa Sanchez Vicario, e la temibile Monica Seles. Quest’ultima, in particolare, sarà la sua nemesi dentro al campo, dove si dimostra spesso persino superiore, e fuori, quando a causa di una coltellata da parte di un fan di Steffi perde due anni di giochi. Allora il peso di essere la più forte non è più solo una questione di dritti e rovesci: significa giocare a rete contro la propria umanità, contro la fine dei sogni.

Dunque, chi si aspetta una biografia sportiva è fuori strada. Ci sono verità, in questa opera, che affondano in un oblio volontario: non sentirete parlare del rapporto con Andre Agassi, perché l’autrice e Steffi non ne hanno bisogno; e non ci saranno storie di doppio, perché Marinelli e la campionessa sono sempre sole in questo gioco. Lo stile si appoggia su ogni muscolo del corpo e dell’anima, fa leva sulla visione e non sulla realtà dello sport, raccontando in terza persona un’atleta sconosciuta eppure stranamente intima.

Per Elena Marinelli (che ha ideato Volée – Un podcast sul tennis) la storia di Steffi è un racconto che deve essere riscattato dal mistero: bisogna pagare il giusto tributo d’amore alla campionessa temuta ma mai amata abbastanza, perché di lei sappiamo solo quello che ci dicono i punteggi e i record, e quasi nulla di ciò che ha da urlare la sua vita silenziosa.

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