Attraverso la scrittura, nel suo memoir d’esordio (“La paura ferisce come un coltello arrugginito”), Giulia Scomazzon, vicentina classe ’87, fa i conti con il trauma per la prematura perdita della madre, morta di AIDS. E in un intervento su ilLibraio.it riflette: “I dati sul tasso di mortalità dell’AIDS nei primi anni Novanta tra gli eterosessuali ex tossicodipendenti mi hanno convinta che esistano centinaia di storie simili alla mia. Orfani di AIDS che come me faticano a stare dentro la continuità della propria esistenza…”

A volte la potenza del lutto trascina nell’oblio la memoria di chi se n’è andato, trasformando la perdita in un vuoto così esteso che si smarriscono i margini della ferita e si confondono i contorni dell’identità che abbiamo costruito attraverso il rapporto con l’altro.

Il panico e la dissociazione sono mezzi imperfetti con cui la mente umana può tentare di reagire alla disgregazione prodotta da un lutto non elaborato. Ed è in queste forme paurose che io ho sperimentato la perdita di mia madre nel corso degli anni, ormai ventotto, vissuti sentendomi costantemente trascinata dentro la sua assenza prematura.

Quando ero bambina è stato automatico e stranamente rassicurante perdere i ricordi dell’infanzia trascorsa con mia madre, perché la malattia e il silenzio attorno alla sua malattia, l’AIDS, ne avevano già divorato dei pezzi essenziali, rendendola scarna come uno scheletro e stanca come qualcuno che ha già smesso di vivere.

Io ho solo dovuto completare la rimozione in atto sotto la parrucca e dietro gli occhiali da sole che usava per camuffare l’incedere della fine con l’immaginazione di una bambina di otto anni che preferisce credere che sua madre non ci sia mai stata, piuttosto che pensare che sia scomparsa nel nulla, abbandonandola. E così non parlavo di mia madre e nessuno mi parlava di lei, in un sistema di protezione familiare dal dolore troppo rudimentale per funzionare davvero, per non lasciare lacerazioni profonde nella mia storia già spezzata da un evento incomprensibile.

Solo nel lavoro di scrittura ho iniziato a sentire questo vuoto come, d’un tratto, abitabile e ho scoperto il potere liberatorio dello scavo, delle domande che prendono voce, della pretesa rabbiosa di vedere riconosciuto il proprio dolore. Il risultato ha le incongruenze e i buchi di una storia troppo lontana nel tempo e cosparsa di non detti e di rimozioni, ma questi fallimenti della memoria sono parte integrante di ciò che mia madre è stata per me e mi sono vietata di nasconderli in nome di una compiutezza apparente, lontana dal vero. Dal vero che ho cercato senza nessun compromesso con la finzione. Il peso della vergogna per l’AIDS è stato un veleno che si è insinuato nel dovere collettivo di ricordare i morti, quella generazione che ha sbandato contro l’eroina e non si è più liberata della colpa di essere diventata la causa del proprio morire.

Con mia madre ho visto scomparire altri genitori, trentenni che si erano smarriti in una giovinezza fatta di turbamenti e sfiducia e che poi erano riusciti a ritrovare la strada della normalità, fatta di lavoro e famiglia, di mobili nuovi e vacanze in camper. I dati sul tasso di mortalità dell’AIDS nei primi anni Novanta tra gli eterosessuali ex tossicodipendenti mi hanno convinta che esistano centinaia di storie simili alla mia. Orfani di AIDS che come me faticano a stare dentro la continuità della propria esistenza, che sentono una frattura tra ciò che hanno dimenticato e ciò che si sforzano di essere per tenere a bada il senso di vuoto che quel lutto silenzioso ci ha lasciato in eredità. A loro, che forse non hanno ancora trovato una voce, auguro di incontrarci dentro e fuori queste pagine.

Giulia Scomazzon La paura ferisce come un coltello arrugginito

IL LIBRO E L’AUTRICE – Giulia Scomazzon è nata a Vicenza nel 1987, ha conseguito un dottorato in Letterature e Media e nel 2021 ha pubblicato il saggio sul “true crime” Crimine, colpa e testimonianza (Mimesis)

Il suo esordio nel mondo della narrativa avviene con La paura ferisce come un coltello arrugginito (nottetempo), un memoir che racconta la storia di Giulia e sua madre Roberta, separate per sempre nel 1995 da un male terribile e ancora senza terapie efficaci come l’Aids. Giulia allora ha otto anni, e a lungo la vera causa della morte di Roberta le verrà tenuta nascosta: la nonna e il padre temono infatti lo stigma con cui la società dell’epoca condanna la malattia e la “tossicodipendenza”.

Ma la reticenza e la finzione si fanno sempre più insostenibili ed ecco che, con ostinazione e per intima necessità, Giulia, ormai adulta, decide di lavorare sulla memoria individuale e collettiva, sulla sua storia che è anche la storia dimenticata di tante altre persone. Vuole restituire un’immagine veritiera e completa di Roberta, donna affettuosa e gentile, operaia in fabbrica, amorevole preparatrice di torte, morta di un male non nominabile. A completare la figura sfocata della madre, che Giulia ricerca avidamente nelle fotografie di famiglia, viene chiamato anche Andrea, il padre che per tutta la vita ha tentato a suo modo di proteggerla, tenendola distante da un passato troppo doloroso. Scomazzon pone a se stessa e al lettore la domanda più difficile: come si supera la paura del passato e dell’assenza? E come si affrontano i modi imprevedibili attraverso cui il lutto si muove su di noi?

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