“In India si perde molta gente. È un paese fatto apposta per questo”. Così Antonio Tabucchi ci accompagna in “Notturno indiano”, romanzo breve e vertiginoso in cui un viaggiatore cerca un amico scomparso (o forse se stesso). Un’India “notturna”, in cui la luce non illumina ma nasconde, avvolge i volti e i luoghi in un chiaroscuro allucinato. La trama è un pretesto: incontri folgoranti, dialoghi sospesi tra ironia e metafisica, episodi che si sfaldano come sogni. La ricerca diventa meditazione sulla perdita, sull’identità, sul fragile confine tra apparenza e realtà. Un libro che affonda le radici nel mito del viaggio trasformativo, ma lo rovescia: qui partire non significa arrivare, cercare non significa trovare. Un labirinto in cui ci si perde con piacere, perché – come i viaggi e i libri veri – è fatto apposta per questo
Non esiste una guida per viaggiare dentro se stessi. Se esistesse, sarebbe un oggetto bizzarro e, a prima vista, del tutto superfluo.
Così è anche il piccolo “kit per viaggiatori in India” che il protagonista di Notturno indiano (Sellerio) di Antonio Tabucchi consulta all’inizio del suo viaggio: una guida che si rivela subito incongrua, lacunosa, proprio come il viaggio che sta per affrontare. Perché il viaggio — quello che conta davvero — è sempre interiore: un cammino senza mappa né bussola, fatto di incognite, scoperte sfuggenti, silenzi e ombre.
Questa idea di viaggio, come percorso che ci conduce lontano per ritornare a noi stessi, ha generato un mito radicato da tempo nella fantasia collettiva.
Il Viaggio con la V maiuscola, quello trasformativo, nasce tra Ottocento e Novecento, quando in Italia si afferma con successo la letteratura odeporica: i diari di viaggio diventano racconti in cui la conquista di nuovi spazi si intreccia con la scoperta interiore. Per l’uomo occidentale partire significava molto più che muoversi: era un rito di passaggio, un’apertura all’ignoto che prometteva redenzione o, almeno, illuminazione.
L’India, in questo immaginario, è la meta per eccellenza: un luogo inafferrabile, dai colori e dalle luci così intensi da sfidare la parola; un palcoscenico su cui l’anima proietta le sue inquietudini e le sue speranze. Non sorprende, dunque, che nel Novecento italiano diventi terreno fertile per una lunga scia di scritti. Negli anni Cinquanta e Sessanta, in pieno fermento culturale, nascono testi come Esperimento con l’India di Giorgio Manganelli (Adelphi), India da zero a infinito di Vito Magliocco (Nuove edizioni di Italia), Viaggio in India di Alfredo Todisco (Einaudi), L’odore dell’India (prima edizione Longanesi, oggi Garzanti) di Pier Paolo Pasolini e Un’idea dell’India (Bompiani) di Alberto Moravia — i due ultimi frutto di un viaggio comune in occasione di un convegno dedicato al poeta Tagore, al quale partecipò anche Elsa Morante.
Moravia e Pasolini guardano allo stesso Paese con lenti opposte.
Moravia osserva come da un telescopio: distaccato, sintetico, trasforma i dettagli in simboli universali. Pasolini invece si immerge per sentire: registra gli odori, i colori, i gesti, e ne ricava riflessioni morali. Eppure, in entrambi, l’India diventa un luogo duplice: spietato e crudele — “il popolo più indifferente di fronte al dolore che io conosca“, dirà Moravia in un’intervista — ma anche inesauribile, mistico, capace di stravolgere la percezione del mondo. Così, passo dopo passo, si cristallizza un topos: l’India come viaggio trasformativo e definitivo.
Ed è qui che arriva Tabucchi, nel 1984, con il suo Notturno indiano.
Parte da quel paradigma, lo accoglie, e nello stesso tempo lo sovverte. Prende il Viaggio che promette rivelazioni e illuminazioni, e lo riporta alla sua natura più caotica, casuale e, in fondo, inutile. Non perché nella sua opera manchino gli esotismi e le suggestioni tipiche dell’India letteraria, ma perché il vero centro non è il luogo, bensì la condizione del viaggiatore: un uomo che si muove tra frammenti, cartoline sbiadite, incontri che sfumano come in un sogno.
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Al centro della storia c’è un uomo — il narratore — alla ricerca del suo amico Xavier. La pista inizia in un albergo, l’ultimo luogo dove l’amico è stato visto. Qui incontra una prostituta in sari colorato che gli racconta che Xavier era molto malato. Da quel momento prende avvio la sua ricerca, che però non ha nulla della missione pianificata e determinata: è una ricerca velata, quasi svogliata. Lo intuiamo presto, quando giunge in ospedale e incontra un medico. Il narratore non ha neppure una fotografia da mostrare per identificare l’amico: solo un ricordo sfocato, indefinito. “Se sorride sembra triste”, dice — il modo più efficace che ha per descriverlo. Il medico precisa che Xavier sarebbe potuto essere arrivato nel periodo peggiore, quello del monsone: “Ne arrivano tanti così”. Quando il narratore replica “Lo immagino”, il medico lo corregge secco: “Non lo immagina“.
Chi legge resta sospeso, in attesa di scoprire se l’uomo possa essere davvero in quel posto, ma intanto la scena si allarga, spostandosi dal contingente a riflessioni più profonde, quasi filosofiche. Il medico osserva con amarezza: “Essere atei è la peggiore maledizione in India“.
Dopo avergli mostrato il reparto dei lungodegenti, indica quello degli incurabili, dove si muore di “tutto ciò che si può immaginare”. Con un tono che non ammette replica aggiunge: “Forse è meglio che lei se ne vada“.
E il narratore concorda, si allontana dall’ospedale e trova rifugio in una stanza del Taj Mahal, l’albergo più sontuoso di tutta l’Asia.
Ma perché non ha cercato l’amico proprio tra chi sta morendo? Se evita il passo più logico fin dall’inizio, quanto è autentica la sua volontà di trovarlo? Più che un cercatore, appare come un viaggiatore distratto, un osservatore che si lascia trascinare dagli eventi. L’impressione si rafforza quando scopriamo che il suo soggiorno in India ha anche motivi accademici.
Quella che chiama “ricerca” assomiglia più a un errabondo muoversi con un pretesto in tasca. Forse l’idea di rintracciare l’amico è solo un appiglio narrativo, un filo sottile a cui aggrapparsi per dare senso a un viaggio che in realtà non ne ha.
“Ma il tuo amico vuole essere trovato?“, gli chiede a un certo punto Tommy, uno dei tanti personaggi che incrocia. Lui non lo sa. E alla fine non sa nemmeno se lo voglia davvero lui stesso. Le motivazioni — mai dette apertamente — appaiono sfuggenti, quasi inconsistenti.
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Scopriamo, attraverso i molti incontri che punteggiano il racconto (ritratti precisi e densi, con dialoghi affilati: qui Tabucchi offre un perfetto esempio di viaggio come condensato di scambi “straordinari”) che il narratore sceglie spesso di non raccontarci tutto. Ai chiaroscuri e ai misteri dell’India si aggiungono quindi i suoi silenzi, simili alle informazioni contenute nella sua guida: strane, apparentemente inutili.
Lo vediamo nelle sale d’attesa di una stazione ferroviaria, illuminate da una luce gialla che filtra dai binari.
Un uomo anziano gli domanda: “Che cosa ci facciamo dentro questi corpi?“.
“Forse ci viaggiamo dentro”, risponde il narratore. “Sono come valigie: ci portiamo dietro noi stessi“.
All’esterno, si sente all’improvviso un lamento. “È un jainista”, spiega l’anziano, “piange per la cattiveria del mondo“.
Poi aggiunge: “Il jainismo è una religione molto bella, ma anche molto stupida”. Alla domanda del narratore su quale religione segua, risponde semplicemente: “Jainista”.
È una conversazione ironica, brillante e raffinata, ma allo stesso tempo conturbante. Uno dei passaggi più memorabili dell’intero libro.
Quando gli viene chiesto se è cattolico, il narratore risponde: “Tutti gli europei sono cattolici… o comunque cristiani, che è praticamente la stessa cosa“.
L’indiano si sofferma allora sulla parola practically e la confronta con actually. Ammette di non aver mai capito se quegli avverbi esprimano pessimismo o ottimismo, arroganza o cinismo… o forse paura.
È un momento in cui siamo chiamati a riflettere anche noi sulla distanza tra ciò che è “praticamente” vero e ciò che è “davvero” vero, e sulla presunzione di poterle separare con tanta sicurezza.
Il dialogo si chiude così: “Ma forse la parola ‘praticamente’ non vuol dire praticamente niente“, dice il narratore.
“Lei è molto bravo… ha avuto ragione di me e nello stesso tempo mi ha dato ragione, praticamente”, ammette l’altro con un sorriso.
“Comunque, nel mio caso, è praticamente paura”, replica il narratore.
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Antonio Tabucchi (Pisa, 24 settembre 1943 – Lisbona, 25 marzo 2012) è stato uno degli autori italiani più raffinati e riconosciuti a livello internazionale, capace di coniugare introspezione e apertura al mondo. Grande studioso e traduttore di Fernando Pessoa, a cui dedicò un’antologia in due volumi (Una sola moltitudine), alternò all’attività accademica una produzione letteraria intensa e varia: dai romanzi Piazza d’Italia, Requiem e Sostiene Pereira, fino ai racconti de Il gioco del rovescio e L’angelo nero, oltre a opere teatrali come I dialoghi mancati (tutti pubblicati in Italia da Feltrinelli).
Il suo legame con l’India nacque da un incarico professionale: la catalogazione di una biblioteca storica a Goa, antica colonia portoghese. Da quell’esperienza prese forma Notturno indiano, breve romanzo che ebbe immediato successo, vinse il prestigioso Prix Médicis étranger nel 1987 e fu tradotto in oltre venti lingue. Nel 1989 ne venne tratto l’omonimo film diretto da Alain Corneau, interpretato da Jean-Hugues Anglade.
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Nel Notturno indiano, la notte non è semplice sfondo atmosferico, ma autentica metafora esistenziale. Il narratore attraversa un’India “notturna” in cui la luce non illumina mai, ma cela, attenua i contorni, confonde le forme. Tutto appare allucinato: gli incontri affiorano dall’oscurità per poi svanire come bolle, come in un sogno che si dilata e si ritrae. E così, infine, proprio come in un’allucinazione, ci troviamo davanti a una rivelazione sconcertante: il viaggiatore che inseguiva l’amico scomparso è egli stesso quell’amico perduto. Il desiderio di comprendere si infrange allora contro la natura sfuggente dell’identità e del mondo, dove apparenza e realtà, memoria e oblio, sé e altro si intrecciano e si confondono.
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“Supponiamo che io stia scrivendo un libro”, dice il narratore verso la fine, seduto al tavolo di un ristorante dove “la luce era abbastanza incerta”, parlando con una giovane donna che confessa di voler essere corteggiata. “E in questo libro io sarei uno che si è perso in India, mentre c’è un altro che mi sta cercando”.
Ogni certezza si sgretola. Avevamo poche informazioni su questo viaggio delirante, e ora scopriamo (o possiamo credere) che persino la ragione che ha messo in moto il racconto, la ricerca dell’amico, potrebbe non essere vera. Il narratore ci conduce in un gioco vertiginoso di inversioni: lui è Xavier, e al ristorante incontra l’amico che lo sta cercando. I due si guardano senza fare nulla. Il tempo del racconto e quello della vita si ripiegano l’uno sull’altro: non importa più chi è chi, cosa si vuole, e il viaggio resta sogno, visione. Amico che cerca e amico cercato si fissano negli occhi, ma alla luce delle candele è impossibile distinguere. Tutto si allontana.
Alla fine, però, l’uomo che cercava trova l’amico.
“Mi ha cercato tanto. E ora che mi ha trovato, non ha più voglia di cercarmi”.
E poi?
Uno dei due finisce il caffè e si alza.
“Basta, il libro è finito”.
“Mi sembra una fine un po’ sciatta”, commenta la ragazza, delusa e insieme affascinata.
Ma tant’è: la fine del racconto coincide con la fine della cena.
Questo è il cuore del romanzo: il viaggio come mito che non si compie, il desiderio che non si realizza, la ricerca che non si conclude. Una rappresentazione ipnotica e disincantata che fa di Notturno indiano un’opera unica nella letteratura di viaggio: perché non conduce davvero da nessuna parte.
“In India si perde molta gente. È un paese fatto apposta per questo“.
E così, alla fine, ci perdiamo anche noi. I libri, in fondo, sono fatti apposta per questo.
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