“Prof, per cosa sacrificherebbe il suo falcone?”. Il senso della letteratura, forse, stava tutto lì in quella domanda. Non aveva alcuna importanza la peste nera, che attraversava Firenze, né le giornate, le novelle e i personaggi. Quel che contava, arrivati a quel passo, era domandarsi: per cosa sarei disposto a sacrificare la cosa più preziosa che ho? Su ilLibraio.it la riflessione di Domenico Varipapa, insegnante di italiano, in libreria con “Il giovane caimano”. L’autore parte da un episodio vissuto in classe durante una lezione sul “Decameron” di Boccaccio…
C’è qualcosa di perverso nello scegliersi un lavoro che ti metta costantemente davanti a un pubblico.
Se sei un musicista, un cuoco o uno sportivo, lo sai. Ma scegliere un lavoro in cui il tuo pubblico farebbe qualunque cosa piuttosto che stare lì ad ascoltarti è puro masochismo. Questa è la realtà quotidiana di un insegnante. Io però volevo fare quello nella vita e così è andata. All’inizio pensavo che conquistarsi ogni giorno l’interesse degli studenti, vivere una sorta di corteggiamento adolescenziale con loro, fosse la parte migliore del mio lavoro, ed era vero. Poi però, col tempo, ci si perde un po’ per strada tra burocrazie isteriche e obiettivi formativi da raggiungere.
Mi trovavo in questa condizione quel giorno. Leggevo in classe la novella del Falcone del Decameron di Boccaccio, e mi sentivo svogliato e distratto. I miei pensieri svolazzavano tra moduli da compilare, riunioni da pianificare e crediti formativi da integrare. In definitiva, più che un falcone, la mia mente era simile a un piccione imbruttito dal grigiore della città. Così, le parole di Boccaccio scivolavano via senza lasciare traccia, sostituite da figure retoriche, strutture narrative e simbolismi marginali.
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Raccontavo alla classe di Federigo degli Alberighi, un nobile fiorentino che sperperò tutte le sue ricchezze nel tentativo di conquistare l’amore di Monna Giovanna. Per questa ragione diventò povero e fu costretto a ritirarsi in campagna con il suo unico bene rimasto: un falcone, il suo amico fedele. Monna Giovanna rimase vedova, così si trasferì in una tenuta vicina a quella di Federigo, con il figlio malato. Il bambino si affezionò al falcone di Federigo fino a desiderarlo per sé. Allora, Monna Giovanna andò a trovare Federigo con la speranza di riceverlo in dono e poterlo dare a suo figlio. Federigo non aveva niente da offrirle a parte il suo bene più prezioso; perciò, decise di sacrificare il falcone per prepararle un pasto. Dopo il pranzo, Monna Giovanna chiese a Federigo il falcone, e lui le rivelò che l’animale gliel’aveva appena dato da mangiare. La storia scorreva davanti ai miei occhi come una mail commerciale di articoli di falconeria.
Stavo per arrivare alla conclusione, quando, all’improvviso, un ragazzo alzò la mano. Mi aspettavo la solita richiesta di uscita, e già mi preparavo a rispondere che no, durante l’ora prima della ricreazione non si poteva.
Invece, mi chiese: “Prof, per cosa sacrificherebbe il suo falcone?“.
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Da ragazzino mi sono arrivate sberle più forti di quella domanda, ma non di così tanto. Certamente fu una bella svegliata. Rimasi spiazzato. Non sapevo come dirgli che aveva toccato il nocciolo della questione. Il senso della letteratura, forse, stava tutto lì in quella domanda. Non aveva alcuna importanza la peste nera, che attraversava Firenze, né le giornate, le novelle e i personaggi. Quel che contava, arrivati a quel passo, era domandarsi: per cosa sarei disposto a sacrificare la cosa più preziosa che ho.
I ragazzi si guardavano tra loro, come se il mio silenzio fosse sproporzionato rispetto alla domanda. Io restavo immobile.
Mi guardai intorno. Vidi i volti dei miei studenti. Loro erano lì, forse annoiati, ma comunque presenti. E io? Ero davvero presente per loro? Mi stavo rendendo conto di quanto stessi diventando ciò contro cui combattevo da studente. Avevo dimenticato l’essenza di quello che amavo.
Mi ripresi come da un torpore secolare. Feci il giro della cattedra e mi ci sedetti sopra col libro appoggiato accanto alla gamba. Mi schiarii la voce e ripresi a parlare.
“È una bella domanda“, risposi. Poi chiesi ai ragazzi di aiutarmi a spostare i banchi dal centro della classe ai lati, “non siate troppo delicati, al piano di sotto stanno facendo lezione, e noi prof abbiamo bisogno di sentire un po’ di casino per tornare in noi.”
Qualcuno rise trascinando il banco. Mi sembravano bambini ai quali avevo dato il permesso di saltare in una pozzanghera. Fui come percorso da un brivido, una specie di allegria, forse.
Facemmo un cerchio con le sedie, e quando fummo tutti seduti ripresi la lezione dalla domanda che il ragazzo mi aveva posto poco prima.
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“Il falcone di Federigo rappresenta ciò che lui ama di più” dissi, “qualcosa di prezioso e insostituibile. E voi? Per cosa sacrifichereste il vostro falcone?”
La classe rimase in silenzio, i ragazzi scambiavano sguardi tra di loro. Era chiaro che la domanda li aveva colpiti quanto aveva colpito me. Poi il primo prese a parlare e dopo di lui lo fecero altri, così la discussione si fece vivace. I ragazzi riflettevano su cosa avrebbero sacrificato per le persone che amavano, per le loro passioni, per i loro sogni. Era come se, per un attimo, la lezione di Boccaccio avesse preso vita. Mentre discutevano, mi resi conto che la domanda del ragazzo mi aveva ricordato qualcosa di me e l’aveva come riacceso, sovvertendo il mio e il suo ruolo. Mi aveva insegnato qualcosa.
Non so nemmeno quanto durò quella lezione, mi sembrò un attimo denso. Quando suonò la campanella non ci alzammo di colpo, come carcerati per l’ora d’aria; al contrario, sembravamo sorpresi, quasi che il tempo non ci fosse bastato.
Mentre raccoglievo le mie cose il ragazzo della domanda si fece di nuovo avanti. “Prof, non ha risposto alla mia domanda”.
Sollevai lo sguardo e gli sorrisi. Non se ne era dimenticato. Allora mi fermai ancora un secondo. Gli dissi che Boccaccio aveva raccontato prima una storia d’amore e poi una di coraggio, perché sacrificare il proprio bene più prezioso, in virtù di qualcosa di più grande, come l’amore, necessitava di un coraggio fuori dal comune.
“Non tutti, quel coraggio, ce l’hanno”, conclusi.
“E lei Prof, ce l’ha?”
Risposi che non ne ero sicuro. Allora lui mi sorrise, sollevò le spalle, come a dire che andava bene comunque, e si mise ad aiutare gli altri a rimettere i banchi al loro posto. Mentre lo osservavo darsi da fare assieme agli altri, pensai che forse anche io gli avevo insegnato qualcosa (ma anche questa potrebbe rientrare negli aspetti patologici della mia professione), ovvero, che nella vita non sempre abbiamo il coraggio o la risposta giusta, ma andiamo avanti lo stesso e va bene così.

Letture originali da proporre in classe, approfondimenti, news e percorsi ragionati rivolti ad adolescenti.

L’AUTORE E IL LIBRO – Domenico Varipapa è nato a Crotone nel 1988, vive a Gualtieri dove insegna italiano e opera nel campo socioeducativo. Ha esordito con un romanzo scritto a quattro mani, Talento (0111edizioni, 2014), e ha pubblicato racconti e saggi su riviste letterarie. Nel giugno del 2022 ha pubblicato Celle con vista (L’Erudita, Giulio Perrone Editore).
Il suo nuovo romanzo, Il giovane caimano, edito da NN, trasporta lettrici e lettori nella vita di Rino, quindicenne che non esce più di casa. Dopo un umiliante scherzo in piscina, diventa un hikikomori. Di notte si rifugia nei giochi online e nelle video-chat, con il nickname “Caimano” e la maschera di Berlusconi, il grande nemico del nonno. Il vecchio pensa che Rino abbia il malocchio, e in punto di morte si fa promettere che tornerà in Calabria per farselo togliere. Il ragazzo decide di partire per porgere al nonno l’ultimo omaggio: seppellire la sua gamba finta nel mare che tanto amava. Inizia così un viaggio verso sud, in cui Rino si ritrova in compagnia di Gaetano, che si fa chiamare Richie Rich e sogna di fare soldi a palate; poi di Massimo, un ragazzo con la sindrome di Asperger; e infine di Margherita, cosplayer di manga giapponesi e suo grande amore. Le loro picaresche avventure attirano l’attenzione dei media e diventano virali, trasformando un gruppo di ragazzini allo sbando, mascherati da Berlusconi, in una piccola famiglia che reclama: “Potere ai giovani”…
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