Mentre continua a fa discutere il “caso” Roald Dahl, Mario Baudino ripercorre l’incredibile vicenda delle censure e riscritture subite da Giovanni Boccaccio, autore del celebre Decameron. Con una lezione finale…

Non c’è solo Roald Dahl. Nella lunga storia delle censure (e dei libri bruciati) ci sono infiniti illustri precedenti, spesso con la differenza che lo sfregio non veniva da parte (sedicente) liberal, ma dalla più bieca reazione.

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A Giovanni Boccaccio, per esempio, accade ben di peggio. Subì una feroce aggressione, il cui resoconto venne pubblicato a stampa nel 1612, anche se da anni circolava in manoscritto, dall’umanista Traiano Boccalini, funzionario pontificio riparato a Venezia causa un certo suo anticonformismo) negli anonimi – e beffardi – Ragguagli di Parnaso: dove si narra, con piglio da cronista, che un certo Leonardo Salviati “omo per quanto comportano li tempi presenti e la qualità dei moderni Toscani, assai insigne nelle buone lettere”, aveva aggredito Giovanni Boccaccio, alle due di notte, riducendolo a mal partito: “Gli diede molte ferite, con le quali lo deturpò e lacerò talmente, che i suoi più domestici amorevoli, che dopo tanta calamità l’hanno veduto, affermano non esser possibile riconoscerlo per quel Boccaccio tanto leggiadro che era prima”.

Non era stato nemmeno un delitto d’impulso: Salviati aveva agito come un killer prezzolato “ad istanza dei Giunti stampatori di Firenze, per avarizia di venticinque scudi”. Tanto che Boccalini immagina il colpevole messo debitamente alla gogna e dichiarato “pubblico e notorio assassino”.

Non si tratta di un evento fantastico. L’assalto ebbe davvero luogo, anche se con modalità un po’ diverse, nel chiuso dello studio di Leonardo Salviati, letterato illustre, principale ispiratore del Vocabolario degli accademici della Crusca, teorico del ritorno alla lingua del Trecento; che ricevette dal granduca Francesco I il non facile compito di “rivedere” il Decameron alla luce dei principi della Controriforma.

La sua non fu l’unica censura, ma la più celebre. L’edizione “rassettata” fu edita a Firenze nel 1586, appunto per la stamperia dei Giunti, un nome illustre nella storia editoriale italiana, che ancora designa un grande gruppo editoriale – anche se non c’è filiazione diretta.

Quando Boccalini ne scriveva per i suoi Ragguagli era ormai passato parecchio tempo, ma lo scandalo, almeno agli occhi degli intellettuali più critici, non si era ancora sopito, anche perché l’edizione di Salviati circolava con grande fortuna.

Va detto che Salviati lavorò infatti forse in stato di necessità, su due binari. Da un lato il suo obbiettivo era infatti la lingua, e cioè il recupero del fiorentino trecentesco, ideale sommo degli accademici: dato che i manoscritti del Boccaccio erano moltissimi (Vittore Branca ne ha contati un centinaio) non era facile decidere quale fosse la lezione originale, voluta dall’autore. Dall’altro i contenuti: e qui il fine letterato ebbe la mano pesante. Corresse in modo significativo sessanta novelle, rimosse tutti gli sberleffi o le critiche alla chiesa, ai preti e ai frati, e per buona misura aggiunse una serie di note che interpretavano il libro come una serie di esempi morali. Il risultato è irresistibilmente comico, come ha dimostrato anni fa in un bel saggio apparso in un volume pubblicato dalla Sorbona (Le pouvoir et la plume) l’italianista Raul Mordenti. Va detto che c’era già stata una versione “purgata” in precedenza, dove però ci si limitava sostanzialmente a tagliare parole o episodi. Qui si trattò invece di una vera e propria riscrittura.

Valga l’esempio della novella di Masetto (la prima della terza giornata) che “si fa mutolo, e diviene ortolano in un munistero di donne, le quali tutte concorrono a giacersi con lui”. Nella prima versione censurata (quella nota come “dei Deputati”) la storia viene laicizzata: non più monache ma “damigelle povere”, senza una madre superiora ma con una contessa filantropa. Salviati interviene con ben maggiore decisione: sposta la vicenda ad Alessandria d’Egitto, in un harem, e trasforma Masetto da Lamporecchio in un “giovane lavoratore ebreo… il cui nome era Massèt”. Arabe dissolute e un ebreo libidinoso: oggi sarebbe un problema non da poco, ma dal punto della vista della correttezza politica d’epoca non faceva una grinza.

Va però sottolineato che il tentativo di rendere ser Giovanni edificante, chiesastico, moralistico, bigotto e chi più ne ha più ne metta non ebbe, alla fine, alcun risultato. Sempre più imitato, sempre più letto, il Decameron ha superato ogni contingenza storica, anche se trionfi e condanne sono andati, da allora, di pari passo. Conclusione: mai mettersi contro un grande libro. E tuttavia mai dare una vittoria per scontata, tantomeno oggi. Come dimostrano le aggressioni, diurne o notturne, che stanno trasformando il Parnaso – e non solo quello –  in una specie di Bronx.

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