Dal drammatico attentato subito da Salman Rushdie (a 33 anni dalla “fatwa”), alle polemiche, in particolare negli Usa e nel Regno Unito, per i tentativi di censurare libri e autori di ieri e di oggi. Passando per il dibattito sull’appropriazione culturale e per quello sulla tendenza a non separare l’opera dalla vita del suo autore – La riflessione di Mario Baudino

Quando, come pensa Robert Musil, «le cose ritornano», si presentano spesso col volto sinistro di una maledizione (non certo in forma di commedia, come riteneva Marx): e la vicenda di Salman Rushdie, il suo martirologio, ne è una dimostrazione evidente.  Lo scrittore è diventato, più che uno scrittore da perseguitare – dal punto di vista del fondamentalismo islamico, e col compiaciuto sostegno di quella “zona grigia” di chi sostiene che in fondo “se l’è andata a cercare” –, un corpo da sacrificare; esattamente come da noi, faceva la Santa Inquisizione: nei casi però estremi, quelli che riguardavano la dottrina. Tant’è vero che in molti episodi si bruciava e vietava il libro, ma si risparmiava quantomeno la vita dell’autore.

L’esempio tipico di come questo sistema persecutorio andò lentamente scivolando nell’irrilevanza con la progressiva secolarizzazione della società è l’Indice dei libri proibiti, strumento formidabile di controllo clericale istituito nel 1559 e abolito ufficialmente nel 1966, ma già ben prima tranquillamente dimenticato (anche perché proibiva quasi tutto, da Copernico a Kant, per non parlare di Foscolo o D’Annunzio, e dunque era inutile). Oggi invece Rushdie, a 33 anni dalla “fatwa”, viene assalito per un immaginario autodafé come fosse Giordano Bruno e non, poniamo, un Marchese De Sade o un scrittore perseguitato per motivi di pubblica decenza, o politici. C’è da chiedersi, ora che l’emozione collettiva per l’attentato alla sua vita sembra essersi placata (e questo non è di per sé un bene), quali siano le logiche di questo scenario.

È proibito parlare di Maometto, anche attingendo alle stesse fonti arabe, e peggio ancora se si è di origine islamica. Ma lo è altrettanto, come dimostrano la strage del Charlie Hebdo o il caso delle vignette pubblicate nel 2005 su un giornale danese, se si è estranei a questa religione. Dalla “fatwa” in poi, una nuova paura si è impossessata del nostro Occidente (andrà aggiunto che in altre parti del mondo è proprio impossibile pubblicare opere critiche, si finisce in galera prima). E in parallelo ha cominciato a diffondersi un’altra idea, che non è figlia della paura ma sembra correre in parallelo ad essa: quella secondo cui un autore non è libero di raccontare “tutto”: ad esempio di parlare di neri se bianco o di immigrati se ben inserito nella propria società – o viceversa se propone scenari inaccettabili per un certo pensiero conservatore, come loro malgrado stanno osservando molte scuole e biblioteche negli Usa, alle prese con continue richieste di censura. Il secondo caso è ancora quello, potemmo dire, dell’Indice dei libri proibiti. Il primo ha a che fare invece con la cosiddetta appropriazione culturale.

Va da sé che in entrambe le situazioni non si corrono rischi particolari – se non forse sociali ed economici – nel violare eventualmente una richiesta di “correttezza politica”. Ma è interessante notare, a proposito di ritorni, come sembri riproporsi un tema che pareva liquidato almeno da quando Proust si “liberò” di Sainte-Beuve. Il celebre critico letterario sosteneva che per comprendere i libri di un autore fosse necessario conoscerne e valutarne la vita, mentre lo scrittore proclamava la separazione tra “l’io che scrive” e “l’io che vive”; e com’è noto almeno ai proustiani più fedeli attribuì le teorie di Sainte-Beuve, in modo un po’ caricaturale, a Madame de Villeparisis, personaggio non secondario della Recherche: per la quale la letteratura doveva essere in armonia con la società, anzi con l’élite dominante, tenendosi nel giusto mezzo e andando bene, perciò, a tutti. Ma se la letteratura è solo questo, pensava Proust, non vale la pena di sprecare la propria vita per essa. Sicuramente lo pensa anche Salman Rushdie: investito peraltro da una forma di brutale atavismo, altro che marchesa di Villeparisis.

Ora, è evidente che data la grande esposizione pubblica degli scrittori, almeno quelli di successo, si tende a identificarli automaticamente con i propri libri e personaggi. Anzi, i libri stessi non sono che un epifenomeno dell’esistenza dell’autore.

È un atteggiamento non del tutto recente: basti pensare, nell’Ottocento, quando negli anni del Romanticismo il pubblico europeo chiedeva agli autori non solo romanzi appassionanti ma l’esibizione di passioni personali. Un artista doveva essere anche un grande o sincero amatore, si pensi a Byron, a Listz, a Musset o a Chopin e alle loro straordinarie avventure  sentimentali, o alla storia di Vittorio Alfieri con la contessa d’Albany di cui tutta Europa chiacchierava; alla popolarità proprio come persona fisica di un Balzac, oggetto di innumerevoli caricature, spiato e osservato non appena usciva di casa; o di Victor Hugo, il primo forse la cui agonia fu raccontata giorno per giorno da tutti i giornali francesi.

È però lecito chiederci se davvero nel caso di Rushdie ci sia un sovrappiù di “corpo” rispetto ad altri. E, concludendo, se siano davvero imparagonabili la condanna emessa contro di lui in quanto uomo, io, identità, essere vivente e autore, e quella, poniamo, contro Woody Allen accusato – ma prosciolto già in istruttoria – di aver molestato una figlia adottiva.

Il suo libro autobiografico A proposito di niente divenne talmente “maledetto”, due anni fa, che l’editore americano, causa rivolta di dipendenti indignati, ne cancellò la pubblicazione (da noi La Nave di Teseo si sottrasse al bando, e fece bene); e per fortuna nessun esaltato pensò di far ricorso alle mani o alle armi. La distanza quantitativa è smisurata, va da sé. Ma siamo così sicuri che non si tratti di due forme pur diverse della stessa intolleranza?

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