C’è un’umanità non protetta, costretta a una realtà degradante, donne che hanno solo la loro carne, dimenticate dal mondo, e il desiderio di cancellare tutto. A raccontarla, un romanzo potentissimo, “Passeggiare la notte” di Leila Mottley: un libro dominato da un’atmosfera asfissiante, di pesante solitudine. L’autrice, ispirandosi a un caso di cronaca (una storia orribile di abusi sessuali da parte dei membri del dipartimento di polizia di Oakland), racconta la commozione dietro l’orrore, e la capacità di amare, straziata, violentata dal buio e dal silenzio…

“Le strade ti trovano sempre di giorno, quando meno te le aspetti. La notte mi striscia addosso quando c’è già il sole”.

Kiara ha lasciato che la strada si prendesse pezzi di lei, e si è ritrovata invischiata nei vicoli al buio: aveva bisogno di soldi, e ha trovato la paura, i lividi, il bianco di occhi estranei, il freddo di pistole puntate alla testa, lo schifo.

La sua vita è diventata così, consegnata alla strada per necessità, a diciassette anni, dopo che il padre è morto, la madre è detenuta, il fratello Marcus si crogiola in sogni irrealizzabili in sala d’incisione, e la sua vicina di casa Dee, una tossica, se ne è andata abbandonando il piccolo Trevor.

È un po’ come pianificare il proprio funerale, decidere di scendere sul marciapiede, di notte, aspettando, un fantasma in minigonna con la carne esposta. Ma nel ghetto di Oakland per una ragazzina di colore non c’è tanta scelta. Cercare lavoro, senza un curriculum, senza un titolo di studio, è vagare senza meta, porte in faccia e qualcosa che muore dentro, ora dopo ora.

Kiara ci prova, a sopravvivere, mangiando ai funerali degli sconosciuti, rubando vestiti, per poi tornare al suo affanno, all’affitto che aumenta, alla fame che il giorno dopo ritorna, insieme al freddo. C’è chi lavora, e chi non ce la fa, e si trova a prostituirsi, per non doverci dormire, sul marciapiede.

Le buche delle strade di Oakland sono fatte per fare inciampare, e per inghiottire i dimenticati: è un’atmosfera asfissiante, pesante di solitudine, quella di Passeggiare la notte di Leila Mottley (Bollati Boringhieri, traduzione di Claudia Durastanti). Tutto sembra inquinato, come la piscina piena di merda di cane davanti a casa di Kiara, nel complesso di appartamenti ironicamente chiamato Regal-Hi.

Adesso che ho fatto sesso posso rifarlo, è solo un corpo, ecco cosa mi dico. Pelle. Non devo considerarla una cosa più grande di quella che è. Solo finché non estinguo i debiti per l’affitto.”

Sembra facile all’inizio, considerare solo il corpo, come qualcosa di altro da sé, uno strumento per sopravvivere, e per far sopravvivere i propri cari. C’è il sorriso di Trevor, che sgambetta e salta sempre più in alto giocando con la sua palla, a far respirare a Kiara l’aria pulita, la purezza dell’essere bambina. Sono i momenti in cui si dimentica che il suo corpo è una moneta di scambio, e ritrova un mondo vero, una terra dei sogni, come quella dei tag che disegna sui muri fin da piccola. In quei sogni ci sono prati verdi, bambine nel mezzo della natura, piena di colori: è quella l’impronta che Kiara lascia nella strada, quella la sua appartenenza, tutto il resto si illude che possa essere transitorio, che si possa lavare via.

Il senso di responsabilità verso Trevor, l’amore verso l’incoscienza di Marcus, il bisogno di un tetto sulla testa, di vestiti caldi: per tenere al sicuro le persone che ama Kiara non ha alternative, non può fare altro che diventare Kia, diventare pelle nelle mani di uomini di cui non conosce nemmeno il nome.

È un biglietto di sola andata, è tenersi in vita, finché non diventa l’intrattenimento di un’intera squadra di poliziotti, in notti di violenza e umiliazioni, abuso di potere e corruzione, sesso in cambio di protezione, così diversa da quella che lei si impegna con ogni sua cellula a garantire a Trevor e Marcus. Per Kiara vuol dire diventare improvvisamente e brutalmente adulta, accettare che alla vita non si può chiedere troppo, farsi inghiottire nel buio del mondo adulto, e finire a urlare sulla freeway, le dita raggrinzite dal freddo, vulnerabile e invisibile. L’amore non sistema tutto lo schifo, e quelle mani estranee che la frugano uccidono la bambina che è stata, che voleva solo imparare ad andare in skate.

A che serve combattere contro una vita che non puoi cam­biare, in un mondo immobile e stagnante, senza un posto in cui andare? Ci sono donne che si svegliano in trappola, grate di respirare ancora, vittime di violenze ripetute, di sfruttamento sessuale, di paura quotidiana. C’è un’umanità non protetta, costretta a una realtà degradante, donne che hanno solo la loro carne, dimenticate dal mondo, e il desiderio di cancellare tutto.

Ispirandosi a un episodio di cronaca, una storia orribile di abusi sessuali da parte dei membri del dipartimento di polizia di Oakland, Leila Mottley firma un esordio potentissimo, iniziato a diciassette anni, e diventato in poco tempo un caso editoriale.

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La giovane autrice racconta la commozione dietro l’orrore, la capacità di amare, straziata, violentata dal buio e dal silenzio. Lo fa con una scrittura ricca, poetica, immagini rigogliose, selvagge, e con una testimonianza audace sulla sopravvivenza degli ultimi, sulla realtà di donne usa e getta, sulla corruzione abusante, ma anche sulla possibilità di parola e di denuncia: viviamo tutto attraverso il tentativo di distacco e di straniamento di Kiara, i suoi sconquassi di pianto dopo, e attraverso il suo slancio, accudente e pieno di amore materno. Passeggiare la notte è un atto di accusa verso l’ingiustizia e l’abuso, il razzismo e la misoginia, un urlo di amore coraggioso e di fierezza che ti stringe la gola. La sua lingua è di una bellezza cruda, che riesce a essere brutale con tocchi di poesia che affondano come unghie dentro la pelle, con rabbia mista a speranza: un cuore che riesce a non spezzarsi è capace di riempirsi sempre, di pulsare, di calore e di sogno, di eliminare il marcio, e di rendere l’acqua di nuovo limpida e la vita tollerabile.

“Penso solo che le stelle possano allinearsi e trascinarci in un altro mondo.

Non un mondo migliore, che probabilmente non esiste, ma di­verso. Un posto dove le persone camminano in maniera un po’ diversa. Magari parlano canticchiando. Forse hanno tutti la stessa faccia o magari non ne hanno nessuna”.

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