Nel saggio “Maledetta sfortuna”, l’autrice, sex columnist e attivista Carlotta Vagnoli sprona a muovere un passo fuori dal branco e a diffondere la disciplina del consenso, aprendo la discussione sugli scenari futuri del rapporto tra uomo e donna, con la speranza di una società libera finalmente dagli stereotipi e dalla violenza di genere, in tutte le sue forme – Su ilLibraio.it un estratto

Di cosa parliamo quando usiamo l’espressione “violenza di genere”? Come nasce? Quali sono i primi campanelli d’allarme? Che cosa accomuna il catcalling al femminicidio? In Maledetta sfortuna (Fabbri Editori), ad affrontare questa dibattuta tematica è Carlotta Vagnoli, autrice, sex columnist, femminista, attivista, da anni punto di riferimento proprio sui temi della violenza di genere.

Dopotutto, si tratta di un argomento che ci tocca tutti quanti, ma di cui si fa spesso fatica a parlare nei termini giusti: l’autrice se ne fa carico sviscerando il discorso e affrontandolo a trecentosessanta gradi, con l’obiettivo di parlare di revenge porn e di linguaggio dell’odio, di victim blaming e di mezzi di comunicazione, di pregiudizi e di luoghi comuni, di educazione e di ruoli, di vittime e di carnefici.

Nel fare questo, ci sprona a muovere un passo fuori dal branco e a diffondere la disciplina del consenso, aprendo la discussione sugli scenari futuri del rapporto tra uomo e donna, con la speranza in una società libera finalmente dagli stereotipi di genere.

Copertina del libro Maledetta sfortuna

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, pubblichiamo un estratto:

(…)

Lo slut shaming (letteralmente: stigma della puttana) è un meccanismo per cui la collettività è portata a giudicare una donna che si allontana dall’immagine pura e addomesticata che dovrebbe avere. Il metro di giudizio comprende sia il piano estetico che quello d’azione.

Sono sotto esame i vestiti, il modo di truccarsi, i capelli e le fattezze fisiche della persona: se, per esempio, una ragazza indossa abiti “troppo” corti (in questo senso, “troppo” è virgolettato perché, nell’ottica di ribaltare gli  stereotipi di genere non esiste un abito troppo corto rispetto a un altro) sarà additata come una troia. Idem se posterà sui social foto in costume o mentre adotta pose sensuali. Se hai le tette grosse, sorella, tanti auguri: verrai sessualizzata sempre, ma se le scopri un po’ ti diranno che sei una facile.

Ovviamente anche il numero dei partner con cui si ha avuto una relazione influisce sul giudizio morale: se una ragazza ha più esperienze sessuali con persone differenti allora sarà considerata una poco di buono.

La cosa grottesca è che il giudizio che daremmo di un uomo nella stessa situazione sarebbe diametralmente opposto: un ragazzo che ha avuto molte esperienze è visto dalla collettività come un bomber, uno che sa il fatto suo. Si pensi, per esempio, alla fama che i calciatori hanno in questo campo. Bene: adesso pensiamo a quella delle veline. Chiaro il concetto?

Ecco spiegato il doppio standard, ovvero l’applicazione di principi di giudizio diversi per situazioni simili, o nei confronti di persone diverse che si trovano nella stessa situazione.

Ciò avviene, è sempre bene specificarlo, perché la figura femminile è caricata di aspettative sia morali che di comportamento. La “necessità” invece viene attribuita alla figura maschile, la quale sembra portata di natura ad accoppiarsi con più persone.

In questo senso si riesce a comprendere meglio come mai ci sia da sempre il bisogno di controllare il corpo delle donne e averne il monopolio, anche e soprattutto in termini di salute (vedi: aborto, verginità, ciclo mestruale e così via).

In questo panorama si sviluppa in modo quasi automatico il secondo atteggiamento di controllo del femminile, ovvero il victim blaming.

Il victim blaming – cioè la colpevolizzazione della vittima – è a tutti gli effetti una delle cosiddette aggressioni secondarie a cui è sottoposta una persona che abbia subito violenza, e consiste nell’additarle la responsabilità del reato di cui è stata, per l’appunto, vittima.

Nella pratica, questo atteggiamento è riassumibile con la famosa frase che viene spesso dedicata alle survivors di stupro: «Te la sei cercata».

Sembra paradossale, lo so, ma è uno dei comportamenti più comuni nella nostra società patriarcale e ha uno scopo ben preciso: spartire la colpa sollevando dalla responsabilità chi ha attivamente compiuto il reato.

Così facendo, da un lato si mantiene saldo lo standard secondo il quale uomini e donne non sono sullo stesso piano, ma i primi sono in netto vantaggio sulle seconde; dall’altro permette di non focalizzarsi sulla problematica vera e propria e quindi di non affrontarla in modo concreto. Un diverso approccio infatti potrebbe rivoluzionare sia l’educazione sessista sia gli stereotipi che la rafforzano, e ciò fa paura.

Impedire nette condanne è un meccanismo che purtroppo a volte viene traslato anche all’interno delle stesse aule di Tribunale.

Uno degli esempi tristemente noti di condanne che, in parte, manlevano l’accusato dalla colpa del reato sessuale commesso è la famigerata “sentenza dei jeans” del 1999 in cui, secondo il giudice, la vittima non avrebbe combattuto poi così tanto visto che, citando il testo «(… il jeans) non si può sfilare nemmeno in parte senza la fattiva collaborazione di chi lo porta».

Degna di nota è anche la vicenda del 2006, nella quale la Cassazione reputò meno grave lo stupro di una  quattordicenne perché non illibata e dunque sessualmente più esperta di quanto ci si possa aspettare da una ragazza della sua età.

Mezzo busto di Carlotta Vagnoli

Carlotta Vagnoli (foto di Pietro Baroni)

Il victim blaming ha un’inquietante peculiarità: non viene applicato per ogni reato, ma solo per alcuni, quelli che esulano dal concetto di “vittima ideale” teorizzato da Nils Christie, criminologo norvegese.

Si definisce vittima ideale una persona che si trovi in condizioni di svantaggio, all’interno di circostanze inevitabili. Christie ritiene che abbiano condizioni di svantaggio soltanto due categorie di persone: bambini e anziani.

Questo conferma come il giudizio su uno stupro sia ben più divisivo di quello su un furto: a nessuno verrebbe mai in mente di additare chi è stato svaligiato come connivente perché se l’è andata a cercare. Idem per una frode bancaria o una rapina a mano armata. Insomma: secondo il senso comune, il fattore che cambia le carte in tavola è la non-illibatezza.

Queste metodologie di colpevolizzazione danno vita a una sovrastruttura in cui la normalizzazione della violenza di genere è all’ordine del giorno.

Il nome di tale sovrastruttura è rape culture o “cultura dello stupro”.

No, non siamo davanti a un modello di civiltà alla Gotham City, nessun iper-cattivo e niente sparatorie da Far West. La cultura dello stupro indica un tipo di assetto sociale in cui la violenza di genere è normalizzata. Ha una struttura
piramidale: alla base ci sono i comportamenti tipici della mascolinità performativa indotta dagli stereotipi di genere, che aprono la strada alle varie forme di violenza contro la donna.

(continua in libreria…)

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