“Quando si gira per queste strade di Parigi, si ha la tentazione di smarrirsi in un passato imperfetto e vago…”. Su ilLibraio.it la scrittrice Ilaria Gaspari ci porta a fare una passeggiata del tutto singolare per le vie della capitale francese, in particolare nel XX arrondissement, citando grandi nomi come Charles Trenet, Edith Piaf, Truffaut e Daniel Pennac: “Nonostante gli ovvi cambiamenti e la gentrificazione che negli ultimi anni ha trasfigurato il quartiere, a Belleville si respira un senso indefinibile di sospensione, fatto un po’ di nostalgia ma un po’ anche di un bizzarro sovrapporsi di epoche, come se molti tempi diversi riuscissero in qualche modo a essere presenti tutti insieme” – Il reportage

C’è una cosa che mi piace fare, soprattutto quando ho la sensazione di poter sperperare un po’ di tempo: apro Google Street View e, con la guida del suo ometto stilizzato, torno a visitare le strade per cui ho camminato, a vedere le case in cui ho abitato; oppure mi butto a scoprire posti in cui non ho mai messo piede, e che forse non vedrò mai davvero. In genere per le mie esplorazioni virtuali prediligo le grandi città, non perché non ami coste o campagne, o isole, foreste e fiumi di cui seguire le anse; ma perché nelle città ci si perde più facilmente, è una flâneuse, anche virtuale, sopra ogni cosa desidera perdersi.

Ci sono città che, come dive del cinema, ci sembra di conoscere anche se non le conosciamo. Non ci siamo mai ritrovati nella folla delle loro stazioni, a consultare una mappa per sapere dove andare, non abbiamo mai calcato i loro marciapiedi, non sappiamo nemmeno che odore abbia, lì, l’aria nella metropolitana – che, ci avrete fatto caso, è diversa e immutabile in ogni città; eppure le possiamo abitare, con perfetta padronanza, nella nostra fantasia. Sono le città in cui hanno vissuto artisti che hanno saputo celebrarle, e le hanno raccontate nei romanzi, nei film, nelle canzoni; hanno storie che conosciamo, e strade e piazze e palazzi che abbiamo visto in mille fotografie.

rue de belleville

Io per esempio, a New York non ho mai messo piede, ahimè; ma vago per le vie con il mio omino stilizzato, e fantastico di essere davvero lì, riconosco inquadrature e mi approprio di un posto lontano che incredibilmente mi pare familiare. Fra queste città-dive, però, ce n’è una che conosco davvero, perché ci ho passato degli anni molto felici; così le mie gite con l’omino di Street View prendono tutto un altro tono, diventano dei ritorni: e un posto in cui finisco sempre per tornare è la prima casa in cui ho vissuto a Parigi, nel XX arrondissement.

Cerco la mia finestra su Street View: non ci sono più le tendine, o almeno non c’erano il giorno che l’hanno fotografata per inserirla nell’archivio virtuale che mi permette di vedere un’istantanea della lunghissima vita del quartiere, per un principio simile a quello per cui, guardando le stelle, vediamo in realtà un momento passato della loro lunghissima vita di stelle; e che mi consente, ogni volta che voglio, di ricascare proprio dentro alla sera di marzo in cui, appena approdata allo studio con la mia unica valigia pesantissima, uscii a cercare un negozietto in cui fare un po’ di spesa, e il caso volle che fosse proprio il momento in cui il sole tramontava.

C’è un sito in cui si possono leggere le ore dei tramonti passati, e così oggi riesco a sapere, inserendo la data precisa di quel giorno, che il mio momento epifanico avvenne alle 18:43 precise di un mercoledì di inizio marzo. Il sole tramontava in fondo alla strada in discesa, in un cielo di nebbia rossa che probabilmente era smog; e contro quel sole che scendeva si ritagliava, ben visibile benché lontana, la sagoma della torre Eiffel. Sarà anche un cliché e tutto quello che volete: ma proprio quel profilo, tanto ridicolmente inconfondibile da dare alla scena un’aria di cartolina iperrealistica, mi fece di colpo commuovere al pensiero che finalmente, senza sapere per quanto, senza conoscere nessuno in città, dentro la cartolina c’ero entrata anch’io, con la mia valigia da provincialotta che, ancora chiusa, mi aspettava in uno studio di 17mq, al sesto piano di un palazzo senza ascensore.

PARIGI belleville

La strada che scendeva, con una curva quasi di fiume, in un chiasso di botteghe cinesi, di frutti gonfi e lustri con nomi scritti in caratteri sconosciuti, di impalcature di cui ero molto fiera di conoscere il nome in francese, tutt’ora una delle mie parole preferite – échafaudages –, di girarrosti su cui abbrustolivano polli bisunti e negozi di abiti da sposa risplendenti di ori e lustrini, di ristoranti e piccoli bar disadorni da porto, era la rue de Belleville alla vigilia della sua gentrificazione. Ora, sette anni dopo, su Street View non vedo échafaudages, e una recente passeggiata in carne e ossa da quelle parti mi ha confermato che è tutto un poco più precisino e più asettico, purtroppo; ma che farci, le città vivono, e cambiano, e questi tempi sono fatti così.

Al numero 72, un portone verde e molto spartano accanto a una lavanderia a gettoni, c’è una lapide. Lì, dice, è nata Edith Piaf: e lo dice con un tono affettuoso e solenne, qualcosa come “qui nacque colei la cui voce doveva un giorno commuovere il mondo”. Ogni volta che passavo di lì, a partire da quella prima sera, ripensavo alla voce destinata a commuovere il mondo, e al suo primo strillo, fra gli strepiti di quella strada in discesa, che nel dicembre del 1915 doveva essere quasi una strada di campagna, se fin nel 2013, poco prima di essere riverniciata dall’estetica graziosa e piatta dei bobò, mostrava ancora una sua aria ruspante e sgarrupata.

La Belleville di inizio Novecento, quartiere operaio al limitare della città, la immagino un po’ selvatica, tenera e sguaiata come quelle canzoni da café chantant che raccontano amori irregolari e un po’ tristi, e una Parigi che non esiste più – come Ménilmontant, la famosissima ballata che Charles Trenet incise quasi cent’anni fa, nel 1938, e che è un’elegia malinconica per un tempo che non esisteva più già allora, figurarsi adesso, mi dico per frenare la mia smania di rimpiangere quello che non ho vissuto. Ma il passato è sempre una terra straniera: e forse è proprio in questo confuso vagare del desiderio fra tempi prossimi e remoti, l’essenza della nostalgia.

villa ottoz maison jules

Ménilmontant è la zona del XX arrondissement che sta alle pendici della salita di Belleville; “Ménilmontant, mais oui madame, c’est là que j’ai laissé mon coeur”, dice Trenet, e ogni volta che torno da quelle parti e mi arrischio su per la strada che sale ascoltando il rumore dei miei tacchi e le chiacchiere della gente assiepata in terrazze di caffè sporchi e accoglienti, come Les Folies o Zorba, o semplicemente corro su per la via con quell’impersonale omino di Street View, ecco, ogni volta penso che anch’io lì ho lasciato un po’ del mio cuore. E come Trenet, più ridicola però di lui, che magari aveva intravisto davvero il quartiere che canta, con le sartine sedute al bistrot in mezzo a vecchie chiacchierone che leggevano i giornali, mi trovo a respirare la prossimità impossibile di un tempo che non c’è più. Ora in memoria delle sartine del XX c’è una statua, all’inizio del Canal Saint Martin, dedicata a una generica ‘Grisette’: una delle ragazze che vissero da queste parti in tempi in cui per le ragazze lavorare e vivere da sole in città era piuttosto pericoloso. Un po’ come un monumento al milite ignoto, queste giovani lavoratrici spesso sedotte e rovinate da giovinastri di belle speranze, da artisti o studenti o bohémiens di tanto tempo fa, hanno la loro brava statua al bordo del canale. Ora i piccoli café in cui si esibivano a inizio carriera Trenet, Edith Piaf e Maurice Chevalier non esistono più, e se resistono sono cambiati, sono lustri e spesso addirittura puliti, e ci si canta molto meno. Per ritrovarli pieni di strepiti, dissolutezza e confusione dobbiamo cercare nelle atmosfere del delizioso film animato di di Sylvain Chomet del 2003, Appuntamento a Belleville, stralunato viaggio negli anni ruggenti di una città che nasce dalla contaminazione fra Parigi, New York e Montréal; eppure, a camminare oggi nel XX, qualche volta basta vedere una viuzza un po’ meno addomesticata, un bar disadorno con il bancone di radica color crema, perché si affacci ancora il senso di un altro mondo non del tutto perduto, ma solo smarrito dietro un angolo: un mondo certo idealizzato, come tutto quello che non si è vissuto, ma che proprio il suo disordine allegro e anarchico riscatta dal rischio del cliché che ha colonizzato purtroppo altre zone di Parigi.

E comunque, oltre a Trenet, anche Truffaut ci conferma che non c’è poi da allarmarsi se, quando si gira per queste strade di Parigi, si ha la tentazione di smarrirsi in un passato imperfetto e vago. Quando, nei primi anni ’60, girò Jules et Jim, siccome il film era ambientato diversi decenni prima – fra il 1912 e il ’33 – per rievocare la città che non esisteva più Truffaut utilizzò anche dei materiali d’archivio, filmati girati molto tempo prima: per restare nella zona di Belleville, il boulevard della Villette, che compare nel film a segnalare il ritorno a Parigi di Jules e Jim dopo il viaggio su un’isola dell’Adriatico, salta fuori da un filmato d’archivio che precede di molto la seconda Guerra Mondiale. Anche la casa dove vive Jules all’inizio del film, quella casa meravigliosa con un giardino che per via dei giochi di luce e ombre pare una gigantesca voliera, oggi non esiste più. Si chiamava Villa Ottoz, sorgeva in una piccola enclave di Ménilmontant, e oggi non ne rimane in piedi che l’arco d’ingresso inglobato nel bel parco di Belleville, per costruire il quale la villa fu demolita nel 1976. Robert Bober, che fece da aiuto regista durante la lavorazione del film, in un suo libro del 2010 dal titolo bellissimo (“On ne peut plus dormir tranquille quand on a une fois ouvert les yeux”, cioè “Non si può dormire tranquilli dopo aver aperto gli occhi una volta”) rivela che in realtà la Belleville di Jules et Jim, con la sua villa, le sue strade e i caffè – fra cui il famoso café Victor sull’introvabile Impasse Compans, che oggi ovviamente non c’è più – sarebbe una sorta di controfigura di Montmartre. Truffaut avrebbe voluto girare nel quartiere della sua infanzia – e dei 400 colpi; ma Montmartre nei primi anni ’60 era comparso in talmente tanti film – anche come esito del successo dei 400 colpi – che, secondo Bober e Truffaut, iniziava ad avere l’aria di essere a sua volta un set cinematografico. Il XX, che pure era apparso in diversi film di gangster (come Rififi, di Jules Dassin, o Raffiche sulla città, di Pierre Chenal), in qualche melodramma (Sotto il cielo di Parigi, di Julien Duvivier, o Les Jeux dangereux sempre di Chenal) e nel famoso cortometraggio Il palloncino rosso, di Albert Lamorisse (1956), somigliava un po’ a un Montmartre d’antan, più vecchiotto, meno noto, meno addomesticabile ai vezzi del cinema.

belleville parigi 1

Ecco, forse questa resistenza al tempo del XX arrondissement spiega perché, nonostante gli ovvi cambiamenti e la gentrificazione che negli ultimi anni ha trasfigurato il quartiere, a Belleville si respiri un senso indefinibile di sospensione, fatto un po’ di nostalgia ma un po’ anche di un bizzarro sovrapporsi di epoche, come se molti tempi diversi riuscissero in qualche modo a essere presenti tutti insieme. Come se da un momento all’altro fosse possibile indovinare il codice di un portone e ritrovarsi nel palazzo in cui si consuma la tragedia generosa di Madame Rosa, mastodontica e adorabile ostessa di bambini soli ne La vita davanti a sé di Romain Gay; oppure, camminando per strada, incontrare Julius Malaussène, il cane epilettico dall’alito pestilenziale che in realtà esiste solo nei romanzi di Daniel Pennac – i sette romanzi del ciclo dei Malaussène, dal Paradiso degli orchi del 1985 a Il caso Malaussène del 2017, che raccontano le storie di una bizzarra tribù la cui residenza è fissata in Rue de la Folie Regnault, non lontano dal Père Lachaise – ambientati tutti in luoghi reali di una Belleville stravolta, fra sale di spettacolo (alla Zèbre de Belleville, che nel Signor Malaussène ha un ruolo fondamentale, ci si può entrare sul serio, basta arrivare al 63 del bd. de Belleville), vecchiette che uccidono agenti, ragazzini piromani, editrici anoressiche ed esperti senegalesi di letteratura cinese.

 

L’AUTRICE – Ilaria Gasparicollaboratrice de ilLibraio.it, è nata a Milano. Ha studiato filosofia alla Scuola Normale di Pisa e si è addottorata con una tesi sulle passioni all’università Paris 1 Panthéon Sorbonne. Nel 2015 è uscito il suo primo romanzo, Etica dell’acquario (Voland). Ha poi pubblicato Ragioni e sentimenti – L’amore preso con filosofia (Sonzogno) e Lezioni di felicità. Esercizi filosofici per il buon uso della vita (Einaudi).

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