Rintracciando le atmosfere tipiche della narrazione d’albergo – inquietanti, asfittiche, ma anche aneddotiche – nel romanzo “Cose che succedono la notte” Peter Cameron affida al lettore una favola dalla penna nera, così lontana dalle sfumature dei suoi precedenti, ma pur sempre in grado, per impeccabile esposizione, di tracimare a stilistica chiarezza anche il disorientamento più profondo – L’approfondimento

Enunciazione letteraria di una sceneggiatura a contrasto, visionaria nel fuoricampo ma lucidissima allo svolgimento, è nei gradienti descrittivi di uno storytelling chiaroscuro, “la sera scese con un’immediatezza snervante (…) E poco dopo l’uomo si rese conto che il buio non era dovuto al tramonto del sole ma al treno, entrato in una fitta foresta dopo aver percorso distese di neve per l’intero pomeriggio”, che la spaesante drammaturgia di Cose che succedono la notte di Peter Cameron (Adelphi, traduzione di Giuseppina Oneto) progressivamente irretisce il lettore, nello stesso ingenerando quella tipica percezione di suspence che spesse volte scatena dalla fruizione dei più grandi bestseller adattati a celluloide (vedi Psycho di Robert Bloch, traduzione di M. Rinaldi, Bompiani, o Tony e Susan di Austin Wright, traduzione di Laura Noulian per Adelphi).

cose che succedono la notte

In tal senso – e per gotica contaminazione – è sul viscerale rapporto fra ambienti e personaggi che, sin dai prodromi di racconto, l’autore particolarmente indugia (ma pur sempre anteponendo la mera suggestione onirica a qualsivoglia, esplicitata, rappresentazione orrorifica): terminale la moglie da un lato, “non appena il treno entrò nel bosco scuro si ritrasse all’improvviso, come se gli alberi che sfioravano la vettura potessero graffiarla”; rubicondo il marito dall’altro, “sui gradini coperti di neve scivolò e cadendo batté il mento contro il bordo della pedana di legno: nella neve vide allargarsi una macchia rossa”, i principali attori del romanzo (una coppia di coniugi senza nome, impegnati in un sacrificale viaggio di perdita e acquisizione) sembrano fisicamente partecipare degli elementi di scena – la stazione di sosta, l’edificio del guaritore e l’orfanotrofio St. Barnabas – sugli stessi misteriosamente collassando come nugoli di insetti d’improvviso attirati dai lampioni.

Non a caso, promana dalle voluminosità del decadente Borgarfjaroasysla Grand Imperial Hotel (l’alveolare edificio che li ospita, ermeticamente situato al centro della città vecchia “per arrivare al banco della reception (…) marito e moglie dovevano attraversare un’ampia distesa di moquette a motivi arzigogolati che si susseguivano all’infinito”) un magnetismo dalla dimensionalità eterotopica, in grado di tutto collegare – e per l’effetto scollegare – senza opportunità di resistenza alcuna.

Già, perché nel rintracciare le atmosfere tipiche della narrazione d’albergo inquietanti, come l’umbratile uomo pecora di Dance Dance Dance di Haruki Murakami (traduzione di Giorgio Amitrano, Einaudi) asfittiche, come per l’esilio domestico di Un gentiluomo a Mosca di Amor Towles, (traduzione di Serena Prina, Neri Pozza), ma anche aneddotiche, come per il chiacchiericcio madrileno de Le Donne del Ritz di Nerea Riesco (traduzione di V. Sarzano, Garzanti), Peter Cameron concretizza, in realtà, un sinergico intreccio di frammentazioni relazionali, destinato a lasciar trasparire – nella molteplicità di camere e corridoi – diverse, e quantomai inaspettate, riorganizzazioni della coscienza identitaria.

D’altronde, è fra le cose che succedono la notte che la popolazione tutta del romanzo (dalla persuasiva dragonessa Livia Pinheiro-Rima, all’incalzante uomo d’affari, dal granitico bartender Làrus allo sciamano fratello Emmanuel) attivamente contribuisce al processo di metamorfosi della coppia, sulla stessa conglobando una forma-pensiero collettiva (difficile non coglierne un precedente contestuale nel cinematografico Rosemary’s Baby di Ira Levin (traduzione di Attilio Veraldi, Bigsur) o nello Shining di Stephen King (traduzione di Adriana Dell’Orto, Bompiani), peraltro magistralmente veicolata attraverso le personalità colloquianti del Borgarfjaroasysla Grand Imperial Hotel: “Tutti vogliono che tutti stiano qui, specialmente d’inverno”. 

Ciò che ne residua, a tramontar di malia, è uno scambio equivalente fra trama e trattazione: dove la buia cittadina – per opus alchemicum oramai sazia – restituisce alla luce il frutto della sua persuasione (o forse un ominoso Presagio, come quello di David Seltzer, Sonzogno, “Voleva che vedesse il sole prima che scomparisse”?), Peter Cameron affida al lettore una favola dalla penna nera, così lontana dalle sfumature dei suoi precedenti (non solo rainbow, come Un giorno questo dolore ti sarà utile, ma anche gialle, come Andorra, o rosa, come Quella sera dorata, tutti per Adelphi), ma pur sempre in grado, per impeccabile esposizione, di tracimare a stilistica chiarezza anche il disorientamento più profondo.

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