Dopo “Lo spregio”, vincitore del premio Comisso e del premio Mondello nel 2017, Alessandro Zaccuri torna in libreria con un romanzo che reinventa la vita di Alessandro Manzoni, proseguendo l’opera di riscrittura dell’Ottocento italiano avviata nel 2007 con “Il signor figlio” (premio Selezione Campiello)

Che cosa sarebbe potuto accadere se Giulia Beccaria non avesse sposato l’anziano (e noioso) conte Pietro Manzoni? La storia, anche quella della letteratura, non si fa con i se, ma il romanzo (anzi, meglio, la buona letteratura) si può fare eccome. Alessandro Zaccuri lo dimostra assai bene con Poco a me stesso (Marsilio), che intanto è un romanzo storico si direbbe virtuosistico – ma su questo aspetto bisognerà operare alcuni distinguo –  in secondo luogo perché è una fantasia – storica appunto – da un lato sorprendente, e dall’altro misteriosa, come se al lettore non venisse detto proprio tutto: gli verrà chiesto implicitamente, infatti, di aggiungere lui qualcosa, di completare il romanzo, di rispondere alla domanda di senso contenuta nel “punto cieco” (per citare un saggio piuttosto memorabile di Javier Cercas uscito con questo titolo per Guanda nel 2016): è quello dove l’autore si arresta davanti non al proprio limite, ma al limite del proprio dire.

poco a me stesso zaccuri manzoni

Lo scrittore spagnolo si chiedeva infatti che cosa accomunasse i “classici” nella loro tendenziale inesauribilità: e individuava una sorta di zona buia, quella che l’occhio non vede, e che solo il lettore può integrare; perché in essa si cela una domanda morale che fa appello all’individualità di chi legge, e non ha perciò una risposta univoca.

Qualcosa di simile accade in Poco a me stesso (da un verso giovanile di Manzoni, da intendere come “poco noto a me stesso”), nonostante l’autore lo doti di una postfazione dove chiarisce ampiamente il suo punto di vista. E riguarda in fondo il valore di “realtà” del personaggio principale, questo Evaristo Tirinnanzi che ha molti tratti in comune con don Alessandro, ma non è non potrà essere mai il suo doppio storico. Eppure esiste, è il suo doppio fantastico. Che ne dobbiamo fare? Che cosa, in ultima istanza, ci sta dicendo?

È meglio per rispetto al lettore non raccontare la trama, che di per sé è avvincente. Possiamo limitarci a indicarne alcuni aspetti essenziali: in casa Beccaria, l’ormai anziana Giulia ospita un avventuriero francese che promette di guarire col magnetismo e si esibisce con grande successo nel salotto, tra le nobili meneghine. Non può tuttavia impegnarsi negli esperimenti più complessi perché il suo bagaglio si è inesplicatamente perso, nonostante lui assicuri che arriverà un giorno o l’altro. Ma il personaggio chiave è il contabile Evaristo, da lei quasi adottato fin dagli anni dell’orfanotrofio, balbuziente e sospettoso, schiavo del gioco d’azzardo, la cui mente è attraversata da strane voci in parte incomprensibili, brandelli di versi, frasi che noi riconosciamo facilmente, perché sono di Alessandro Manzoni.

Tra i due nasce un’imprevedibile amicizia, finché si confessano le loro rispettive – e contorte – vicende: non prima però di essere sprofondati negli abissi di Milano, con avventure rischiosissime nel Bottonuto, quartiere del malaffare allo stesso tempo cupo e colorito. Ci saranno sorprese, alla fine; non diciamo quali. E resterà soprattutto il mistero di quelle “voci” manzoniane che turbano Evaristo, e che lui annota febbrilmente su un quaderno. Ma, come già accadeva in Il signor figlio, romanzo in cui Zaccuri ha già ampiamente sviluppato il procedimento storico-fantastico, e il gusto per l’avventura, la dinamica di quel che accade è dettata dalla scrittura, dalla scelta stilistica, dal linguaggio.

A una lettura un poco disattenta potrebbe sembrare infatti un romanzo ottocentesco, tra Dickens e Balzac citati peraltro dall’autore nel suo congedo postfatorio (ma diremmo più il secondo che il primo); o meglio ancora pre-Manzoniano, contiguo al Fermo e Lucia prima dei panni lavati in Arno. La mimesi è perfetta. E parlando di virtuosismo si alludeva a questa che è in fondo una amorevole trappola: un italiano credibilmente primo-ottocentesco sia dal punto visto sintattico sia da quello grammaticale e lessicale (“gastigo” per castigo, “leggiero” per leggero, e così via), massiccia presenza del narratore che si rivolge direttamente ai lettori con una dizione assai paludata, scene madri, torvi figuri, belle fantesche, tutto come se ne scriveva un tempo. Il risultato è una delizia, ma non fine a se stessa.

D’altra parte, perché scrivere in una lingua “morta”? Molto più di noi si sono posti la domanda i critici anglosassoni, perimetrando un “sottogenere” piuttosto significativo degli ultimi trent’anni, il cosiddetto romanzo neo-vittoriano (l’esempio più noto in Italia è forse Possessione, di Angelica S, Byatt, uscito nel 1990 e tradotto nel 1992). Non sappiamo se Zaccuri abbia avuto intenzione di farvi esplicito riferimento, ma è indubbio che ne rispetta il paradigma. Il romanzo neo-vittoriano (vale anche per il cinema) è stato definito come uno specchietto retrovisore, che non rende e non deve renderci un’immagine “vera” (semmai, nel caso, rovesciata). È un gioco di prestigio, la messa in scena sapiente di un’illusione che però deve in quanto tale essere percepita dal lettore (o dallo spettatore): sospende il nostro scetticismo in un gioco di specchi e ci porta a riflettere sul rapporto tra realtà e immaginazione. Giudichiamo così la qualità della performance (di un attore, di un prestigiatore, di uno scrittore) alla sua abilità nell’ingannarci o quantomeno di illuderci.

Il romanzo post-vittoriano è insomma una sfida meta-testuale, o metanarrativa: costruisce una realtà perfetta, e insieme la decostruisce. Nel caso di Poco a me stesso Evaristo esiste e non esiste, proprio come Alessandro Manzoni. Ma, nei confronti di quest’ultimo, e della letteratura, l’aver immaginato e “creato” Evaristo con tanta infinita cura è soprattutto un gesto di straziante amore. O almeno questo è parso a me di scorgere, fra divertimento e, sì, commozione, nel “punto cieco” di Zaccuri.

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