“In “Piccoli miracoli e altri tradimenti”, nuova raccolta di racconti di Valeria Parrella, i personaggi si muovono e si agitano dentro confini di dolore e irrequietezza. In alcuni casi questi finiscono nella rassegnazione, in altri rimangono all’erta…

Piccoli miracoli e altri tradimenti (Feltrinelli, 2024) è una raccolta di dodici racconti, in parte già pubblicati, scritti “in un tempo esitante e doloroso, pieno di rassegnazione e amore”: in questo modo Valeria Parrella ci consegna questi suoi scritti, nella nota dell’autrice a fine volume, e ci racconta qualcosa del suo tempo privato di scrittura, implicando, allo stesso modo, che riguarda anche noi come lettori.

Lo annota alla fine, come è d’abitudine in questi casi, ma riusciamo a darle ragione, lo scopriamo pian piano mentre leggiamo: ci sono sentimenti contrastanti, pagine che si rincorrono e personaggi che si fanno eco, riportando indietro un suono amplificato o sussurrato, a seconda. La rassegnazione è parte delle esistenze di tutti i protagonisti, da Antonella la preside a Serena la cassiera, come pure la ricerca dell’amore, sia quello che sta nel ricordo del passato sia quello che si cerca nel presente.

Piccoli miracoli e altri tradimenti di Valeria Parrella

La protagonista del racconto di apertura, Mamma, è appunto Antonella, una donna che si vede vecchia, si pensa vecchia ma prova a raccontarsi e assegna alle parole il compito di farla sentire diversa, fino a riuscire a ribaltare il pensiero, una volta capito che c’è lo sguardo di qualcuno a cui può affidarsi. Prepara un pranzo di famiglia, ha una pastiera da servire: “Ho aperto la dispensa e ci sono passata attraverso: e di là c’era un cielo pieno di nuvole, ma non minacciose, e una strada lunga e grigia costeggiata da entrambi i lati da un campo verde scuro, di erba bassa, come incredula, e ci abbiamo camminato per un lungo tratto, facendo sentire il rumore dei nostri tacchi: io, Michel Piccoli, Milena Vukotic, Jean-Pierre Cassel.”

Serena, che fa da contraltare ad Antonella nell’ultimo racconto dal titolo Rivoluzione, è, invece, una donna che si vergogna di essere oggetto dell’ossessione di un uomo; se Antonella è rassegnata dalla sua stessa percezione e prova a vincersi tra titubanze e ansie, Serena prende la situazione di petto, la affronta appena possibile e si tira fuori, con rabbia, con ostinazione.

Entrambe si divincolano da una tenaglia, mentre danno sfogo al loro proposito, una investita di una rassegnazione sotterranea e l’altra di una rabbiosa e per entrambe il confine per riuscire nella loro impresa è stretto, presuppone un atto complesso: per Antonella è un incontro, per Serena è una frase di sincera nudità emotiva. Entrambe trovano la strada nello sguardo altrui che riesce ad abbracciarle e a tenerle calme per un tempo piccolo ma fondamentale. “Così la rabbia si staccò e scomparve, e in quel momento anche a Serena non rimase nulla: glielo disse, perché era una persona onesta”.

Di rassegnazione (silenziosa) e rabbia (finale) è fatta anche la madre del racconto Caffè. La storia è quella di Margherita che ragazzina immagina un mondo fuori dalla finestra o nei libri di letteratura o attraverso il profumo lasciato dalle donne sui vestiti di suo fratello Gerardo; del padre di famiglia che va via di casa “leggero ed elegante così come era”; della madre che è essa stessa la casa, da riordinare, rassettare e pulire, le mura da cui chiunque altro vuole fuggire ma che lei governa muta, come se fosse l’unica cosa che conta, l’unica cosa che possa decidere della bontà della sua vita. La madre lascia i segni del passato sul muro, non riesce a cancellare del tutto la separazione, ma ne gestisce i segni, chiudendoli nell’ombra; dentro le mura soffocanti, c’è uno spazio ricavato destinato all’oblio: “Restarono tumulati, i panni di suo padre, nel ripostiglio: mutate fuori le fogge delle giacche, passate di moda le scarpe con la tomaia bicolore”.

La madre, Antonella, Serena patiscono e sopportano – chi l’abbandono, chi l’invisibilità, chi una vita piccola – e quasi si rassegnano. Cercano un’occasione e forse la trovano nella vita di tutti i giorni, fosse anche per un’ora e una volta soltanto. Come loro, la professoressa d’arte di L’ultima spiaggia e il sindaco di E allora? si imbattono in una possibilità di un altrove che è però per loro fisico, più che emotivo, ma devono ricorrere a situazioni eccezionali: l’una vive senza saperlo una esperienza extrasensoriale, spirituale, l’altro si ritrova in una situazione ai limiti dell’assurdo e dai tratti di commedia degli equivoci. Questi due racconti, uno dopo l’altro, stanno a metà, fanno prendere fiato, perché si abbandonano le storie di vita che ci somiglia e si apre e chiude una parentesi dai toni più sfumati e leggeri, più spiccatamente divertiti.

L’ironia che tratteggia quasi tutte le pagine della raccolta, infatti, si affaccia subito, fin dal primo racconto, sostenendo la sofferenza per gli amori traditi, i problemi coniugali, i funerali; poi, però, si autosospende, quando sale in superficie e lascia che siano le storie a prendere lo spazio dell’ironia, con L’ultima spiaggia e E allora?, prima di inabissarsi nuovamente e riaccendere i fari più forti di prima, illuminando gli ultimi racconti.

Valeria Parrella consegna al lettore una raccolta di racconti in cui i personaggi si muovono e si agitano dentro confini di dolore e irrequietezza. In alcuni casi questi finiscono nella rassegnazione, certo, ma in altri rimangono all’erta, quasi in attesa di qualcosa d’altro da aggiungere, che sia un ricordo, e dunque nostalgia dolorosa, o il presente, e quindi vivacità. Il tempo della rassegnazione allora sembra questo: un tempo che non riesce a essere sempre definitivo.

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Fotografia header: Valeria Parrella, foto di Sara Lando

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