“Qui non c’è niente per te, ricordi?” di Sarah Rose Etter è un romanzo che segue la vita di Cassie, trentatreenne marketing manager in una delle aziende del tech più di successo della Silicon Valley. Tra crisi immobiliare, alienazione e un lavoro tossico, la quotidianità della protagonista e il “buco nero” che l’avvolge diventano l’osservatorio per una crisi molto più grande, che parla di una concezione malata del lavoro e di quella che il New York Times ha definito “il sistema distopico del tardo capitalismo”…

Se avete letto i saggi di Francesco Costa saprete della crisi abitativa che, ormai da non pochi anni, sta attraversando la California. Se avete letto La valle oscura di Anna Wiener, invece, forse avrete trovato qualche risposta sulla Silicon Valley e sull’assurdo mondo che ha creato.

Se ogni tanto scrollate TikTok o Instagram vi sarà capitato di incrociare le immagini dei negozi di San Francisco distrutti, o abbandonati, o costantemente protetti da guardie per evitare aggressioni e rapine.

Bene, tutti questi temi – raccontati tra ironia e dramma – sono contenuti in Qui non c’è niente per te, ricordi? di Sarah Rose Etter (La Nuova Frontiera, traduzione di Lorenzo Medici). 

Qui non c'è niente per te

“«Prossima fermata: VOYAGER» dice l’autista. VOYAGER è un’azienda-unicorno il cui valore, stimato in sedici miliardi di dollari, è dovuto a un oscuro trattamento dei dati per profilare gli utenti, stimolandoli a fare acquisti online. lo sono la responsabile creativa dell’ufficio marketing”.

A parlare è Cassie, dipendente trentatreenne di una delle tante aziende tech della Silicon Valley. Di lei, però, non conosciamo la “vera Cassie”. Piuttosto, seguiamo le giornate di una sorta di “falsa Cassie”, eppure molto funzionale, che esiste quando lei è al lavoro e che porta a termine una serie di compiti di dubbia etica.

“Il treno è pieno di Credenti. Io non sono una di loro.
I Credenti hanno la pelle cerea e gli occhi vitrei. Indossano: giacche a vento con loghi di aziende tecnologiche, jeans, scarpe di tela, ballerine ecosostenibili. I loro auricolari di plastica bianca sovrascrivono il suono della vita reale, e hanno le facce annegate negli schermi. Non parlano, non ti guardano negli occhi. Non sono davvero qui. Il treno è pieno di gusci”.

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Il treno, pieno di falsi sé, è quello che porta i lavoratori del tech della Silicon Valley – i Credenti, come li chiama Cassie – alle loro aziende, ogni giorno. Ma quel viaggio non è solo uno spostamento verso un posto di lavoro; è anche un’ottima posizione da cui guardare alla realtà delle cose, quella che vive fuori dai racconti della Silicon Valley, fuori dallo storytelling delle start-up, degli investitori, degli unicorni e degli stakeholder. Una realtà spesso difficile da vedere quando le giornate trascorrono chinati sugli schermi, isolati dalle AirPods e anestetizzati dalla romanticizzazione del “vivere per lavorare”.

“Costeggiamo le file di camper e roulotte parcheggiati su entrambi i lati della strada. È impossibile non immaginarsi le persone che vivono nei camper. Un ingegnere della VOYAGER, Jeremy, vive in un furgoncino azzurro parcheggiato nel piazzale dell’azienda. Tutti parlano di lui a voce bassa, in segno di rispetto per quest’uomo biondo e pallido con gli occhi scuri, il corpo temprato dall’assunzione di strani integratori. Dicono che Jeremy è sveglio e morigerato. Dicono che si sacrifica per l’azienda”.

Mentre le persone vivono nei camper, o in auto parcheggiate in piazzali di periferia; mentre il costo degli affitti a San Francisco è diventato insostenibile anche per chi abbia posizioni lavorative di rilievo; mentre i titoli dei giornali parlano di un virus che si sta diffondendo in tutto il mondo e di violenti incendi che stanno bruciando la California, la Silicon Valley vive una leggenda tutta sua, a cui i Credenti, appunto, credono. Una leggenda fatta di soldi, potere e successo. Una leggenda a cui Cassie, nonostante possa vivere in un appartamento a San Francisco da tremila dollari al mese, non sa davvero se credere. E a dirlo è un “buco nero”.

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“Lavoro per quindici ore senza neanche fermarmi a mangiare, e vado alla grande. Ma c’è di meglio: le droghe rimpiccioliscono il buco nero. Sotto l’effetto della cocaina si riduce a un puntino. Quando non lavoro mi perdo dentro gli schermi, come tutti da queste parti: portatile, telefono, tablet, televisore. L’alternativa è troppo spaventosa. Quando sono sobria, senza schermi a portata di mano, sento crescere un dolore enorme. Nell’orribile silenzio riesco a distinguere il fiume assordante della malinconia che ruggisce nella caverna purpurea del mio cuore”. 

Sotto la superficie scintillante della vita di Cassie c’è un posto di lavoro tossico, dei capi violenti, una quantità di farmaci indicibile e un conto in banca che basta a malapena per sostenere il costo della sua vita. Sotto la superficie scintillante c’è il buio di un “buco nero” che segue Cassie in ogni sua giornata: in ufficio, sul treno, a casa, lungo le strade della città. Un buco nero che i lettori di Ripe, titolo originale di questo libro, hanno chiamato depressione

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Alexandra Chang, che ha recensito il romanzo di Etter sul New York Times, ha scritto: “Ogni giorno è testimone della sofferenza in questa città degli estremi – uomini che si danno fuoco, persone senza casa che defecano per strada, donne che svengono in pubblico con i piedi insanguinati”.

Chang inserisce questa narrazione dell’alienazione e della depressione in un più ampio filone narrativo teorizzato da Audrey Wollen: la “Sad Girl Theory”, la “Teoria della ragazza triste”. L’idea alla base di questo pensiero è quella che le donne, mettendo in atto il loro dolore, stiano sovvertendo i sistemi di potere.

Scrive ancora Chang: “C’è una lunga storia di ragazze e donne tristi nella letteratura. Pensate ai romanzi di Jean Rhys, Joan Didion, Sylvia Plath. Negli ultimi dieci anni circa il soprannome di “ragazza triste” ha guadagnato terreno attraverso i media (e i social media) pop e prevalentemente bianchi: musicisti come Lana Del Rey, Phoebe Bridgers e Billie Eilish; Serie TV come Fleabag e Crazy Ex-Girlfriend; libri come Il mio anno di riposo e oblio, So Sad Today (e il suo omonimo account Twitter) e l’intera opera di Sally Rooney”.

Cassie potrebbe sembrare una ragazza altamente funzionale, perfettamente capace di svolgere il suo lavoro quotidiano. In realtà, però, lo fa con vergogna e con un’infelicità sempre più invalidante.
“Per sopravvivere qui, devo dividermi tra due identità: una vera e una fittizia. La finta me prende il controllo quando le pretese si fanno eccessive. Forse ognuno di noi è sempre doppio: c’è la personalità reale e quella che creiamo per sopravvivere nel mondo che ci è capitato”. E anche questa, visto come andrà la storia di Cassie, è – a suo modo – una strategia per sovvertire “il sistema distopico del tardo capitalismo”, come lo ha definito ancora Chang.

Sarah Rose Etter (già autrice di Il libro di X, Pidgin Edizioni, traduzione di Stefano Pirone)
dà forma a questa profonda sofferenza
, e al tentativo di Cassie di controllarla, scrivendo pagine ordinate, quasi schematiche. I capitoli si aprono con la definizione di una parola in “formato dizionario” e proseguono con un racconto in prima persona intervallato da titoli di giornale e codici binari. 

“La Silicon Valley è il centro del mondo”. Così dicono.

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