La protagonista di “Il periodo del silenzio”, il nuovo romanzo di Francesca Manfredi, d’impulso elimina i suoi profili social, e gradualmente smette di comunicare anche in altre forme. Per lei il silenzio tende a diventare la scelta di una sparizione dal mondo. Su ilLibraio.it la scrittrice riflette sul suo rapporto “conflittuale” con i social, e cita le scelte di autrici come Fran Lebowitz e Ottessa Moshfegh. Manfredi spiega perché ha optato per un “consumo prevalentemente passivo”, “una modalità più rassicurante e protetta, perché non implica un’esposizione”

C’è un punto, nel romanzo che ho scritto – Il periodo del silenzio – in cui alla protagonista, Cristina, viene chiesto quale sia il suo rapporto con i social.

Conflittuale, risponde lei senza esplicitare. Io, che non ho fatto alcun voto di silenzio, posso spiegare che, per me, conflittuale è un termine che indica un odio profondo e insieme una dipendenza; che nasconde ore di consumo passivo parallelamente alla produzione di pochi o zero contenuti. Un po’ come l’amico insopportabile, che ti parla solo dei suoi problemi ma che, per mille motivi o nessuno, non riesci a smettere di frequentare.

Ho aperto un account Facebook nel 2011, con discreto ritardo rispetto ai miei coetanei.

L’ho fatto convinta (costretta?) dal docente di un corso di Sociologia dei media, all’Università, secondo il quale era necessario che, oltre che in aula, comunicassimo online. All’inizio, oltre a trovarla una richiesta assurda, mi sono sentita un po’ violata: da persona piuttosto riservata quale sono, ancora non mi davo pace che il “farsi i ca**i degli altri” fosse incentivato a tal punto da diventare la cosa del momento.

Poi mi sono ripetuta che non era questa gran cosa, che ormai ce l’avevano tutti, e così mi sono iscritta.

Per almeno un anno sono andata avanti con un nome fittizio e un profilo blindatissimo, accessibile solo ai compagni del corso, senza rivelare nemmeno alle mie più care amiche quella che vedevo come una resa (ero molto più orgogliosa e idealista di adesso, all’epoca).

Quando le amiche l’hanno scoperto, ci sono rimaste male. “Perché ce l’hai nascosto?” La verità è che non lo sapevo neanch’io. Così, presa dai sensi di colpa, ho tenuto l’account, senza smettere mai di detestare Facebook.

Nel 2014, sempre in ritardo, ho attivato anche Instagram, e lì devo dire che inizialmente l’effetto fu un altro. All’epoca si usava solo per condividere foto, quando lasciavi un commento o un mi piace non venivano allertati tutti i tuoi amici come su Facebook (che orrore), sembrava ancora un luogo non troppo frequentato e più o meno sicuro, senza troppo odio né divario generazionale.

Quando il mio primo libro stava per essere pubblicato, i social, a chiedere in giro, mi sarebbero diventati indispensabili. “Per il tuo lavoro ti servono”, “Devi farti un po’ di promozione”, “Bisogna fare almeno un post per annunciare l’uscita.”

Il post l’ho fatto, senza troppa abilità né convinzione, perché, per qualche oscura ragione, scrivere su Instagram mi genera molta più ansia che scrivere un romanzo. Ma il fatto è che, all’improvviso, era effettivamente difficile immaginare una vita senza i social media. Magari non mi avrebbero portato grandi conquiste o cambiamenti (come in effetti è stato): ma se mi fossi negata quella possibilità? Avrei reso tutto ancora più difficile, probabilmente.

In un articolo del New York Times del 2016 (ormai datato, ma si noterà come poco sia cambiato in quel senso) dal titolo Holdouts of the Social Media Age, Teddy Waine scrive: “Non è un grande sacrificio quando una persona del calibro di George Clooney rinuncia ai social media, perché ha poco da guadagnare e molto da perdere. Ma per una persona all’inizio di una carriera che dipende dall’attenzione, che si tratti di un romanziere o di un imprenditore, farlo è un vero rischio”.

Eppure, anche i personaggi noti e gli scrittori affermati si dividono in due categorie: quelli social e quelli no. Due tra le autrici viventi che più stimo, Ottessa Moshfegh e Fran Lebowitz, appartengono alla seconda categoria.

Fran Lebowitz è nota per scrivere pochissimo ed essere quasi completamente technology-free: non possiede computer, smartphone, nemmeno un telefono cellulare. “Leggo il [New York] Times solo il sabato e la domenica,” dice, “e mi ci vuole tutto il weekend. Non so come faccia la gente a leggerlo tutti i giorni, e io non sono una lettrice lenta.”

La pagina Wikipedia di Ottessa Moshfegh recita: “Nel luglio 2015 cancella il suo account Twitter e da allora non è presente su alcun social media” (a parte Depop, aggiungo io, sul quale vende abiti di seconda mano, oggettistica vintage e t-shirt personalizzate con la scritta Unlikable female character. Peccato che non spedisca in Europa).

Nell’articolo di Teddy Waine menzionato sopra, Moshfegh confessa di essersi tolta dai social proprio prima dell’uscita del suo primo romanzo, Eileen, essenzialmente per due motivi. Il primo, l’assenza di controllo e il giudizio continuo che avvertiva nel mostrare la propria immagine e il proprio pensiero su Twitter. In secondo luogo, perché “mi stavano facendo odiare tutti. Mi sentivo in colpa, come se ci fosse uno standard di vita di cui io non ero al corrente, e che odiavo così tanto che, se mai fossi entrata in contatto con esso, avrei ucciso qualcuno.”

Con un po’ di presunzione, forse, posso spingermi ad affermare che chiunque possieda o abbia mai posseduto un profilo Facebook, Instagram o Twitter avrà provato la stessa sensazione, almeno una volta nella vita. C’è chi soccombe e abbandona, chi sta al gioco, chi insulta i social sui social, chi riversa l’odio nel commentare a sproposito, scegliendo un bersaglio diverso ogni giorno. Patricia Lockwood, in Nessuno ne parla, scrive: “Ogni giorno la loro attenzione doveva orientarsi simultaneamente, come il luccichio di un banco di pesci, verso una nuova persona da odiare. A volte il soggetto era un criminale di guerra, altre volte era qualcuno che aveva compiuto un’efferata sostituzione negli ingredienti del guacamole.”

Personalmente, ho risolto in un’altra maniera. Un rapporto conflittuale, per me che non ho abbastanza forza di volontà, né coraggio, né possibilità, forse, di abbandonare, è il meglio a cui posso tendere. Contenuti limitati ed essenzialmente randomici, consumo prevalentemente passivo. Una modalità più rassicurante e protetta, perché non implica un’esposizione; talvolta un po’ codarda, come osservare una rissa in strada dalla finestra.

Osservare è più facile: non devo perdere tempo a pensare che a qualcuno importi davvero così tanto di quello che scrivo in un post; non devo preoccuparmi se lo fa, o deprimermi se no.

Non mi sognerei mai di commentare negativamente qualcosa o qualcuno: l’hate-watching funziona se rimane una questione privata, un’attività da spartire con pochi al massimo. Utilizzati in questa maniera, i social hanno su di me un effetto calmante. Posso aprirli prima di andare a letto e addormentarmi dopo pochi minuti, nonostante la luce blu, a testa vuota come non avviene coi libri. TikTok e YouTube sono perfetti per questo, il regno dei fruitori passivi. Il lato negativo è che il flusso continuo e incoerente dei contenuti mi genera ormai la stessa insensibilità che, dicono, arrivino a provare i chirurghi o i veterinari. Ma, forse, non è nemmeno del tutto un male. Esiste ancora un mondo, là fuori.

Il periodo del silenzio di Francesca Manfredi

L’AUTRICE E IL LIBROFrancesca Manfredi, nata a Reggio nell’Emilia nel 1988, è una drammaturga e scrittrice italiana. Si è laureata al DAMS dell’Università degli Studi di Torino, e poi diplomata alla Scuola Holden, dove tiene corsi di narrazione.

È rappresentata da Andrew Wylie, un famoso agente letterario statunitense, che ha conosciuto in occasione di una lezione da lui tenuta presso la Scuola Holden. Alcuni suoi lavori sono stati pubblicati su Linus e sul Corriere della Sera.

La sua prima raccolta di racconti Un buon posto dove stare (La nave di Teseo, 2019) ha vinto il Premio Campiello nella sezione Opera Prima 2017. Nel 2019 pubblica invece il suo primo romanzo, L’impero della polvere, edito da La nave di Teseo.

Ora torna, sempre per La nave di Teseo, con il romanzo Il periodo del silenzio: la protagonista, Cristina Martino, laureata in Archeologia, lavora, da precaria, nella biblioteca di dipartimento dell’Università di Torino. Cristina una vita piuttosto monotona, una famiglia ordinaria, nessun trauma in particolare. Ha avuto qualche relazione di breve durata – una, in particolare, che le è rimasta dentro con una forma di dolenza irrisolta – un flirt con Daniele, conosciuto da poco, e un’amica, Silvia, che sembra il suo opposto; ogni cosa in lei sembra tendere infatti all’evasione dalla norma, al rumore, all’eccesso di vita. Una sera, presa da un impulso momentaneo, Cristina decide di eliminare i suoi profili social

Un gesto senza motivazione apparente, non insolito, di certo non rivoluzionario: eppure, questa sarà la prima tappa del suo percorso verso il silenzio, perché, gradualmente, Cristina decide di smettere di comunicare. Pur continuando la sua vita quotidiana, si priverà delle parole, della voce, dei gesti, mantenendo una comunicazione dapprima essenziale e, infine, eliminando anche quella. Cristina sempre più sembra scivolare in una forma di rarefazione, di invisibilità fisica, in cui il silenzio tende a diventare la scelta di una sparizione dal mondo. Quando un articolo sulla sua storia diventa virale, una schiera di persone decide di emularla, attribuendo al suo silenzio significati universali e necessari, mentre nessuno sembra più sapere dove Cristina si trovi e se tornerà.

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Fotografia header: Francesca Manfredi, nella foto di Federico Botta

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