“La gioia avvenire”, romanzo d’esordio di Stella Poli, è una riflessione sul consenso, sulla fallibilità della giustizia umana e sulla persistenza delle ferite. Nel suo intervento su ilLibraio.it, citando altre opere e fatti di cronaca, l’autrice si sofferma sulla difficoltà di rappresentare il trauma, in particolare in riferimento allo stupro

È difficile rappresentare il trauma, immaginarlo: spesso, per farlo, lo trasliamo.

Mi aveva colpito, anni fa, la storia di una studentessa americana, Emma Sulkowicz, ventunenne nel 2014. Emma frequenta la Columbia University e denuncia per stupro un suo compagno di corso, poche settimane dopo l’inizio del suo ultimo anno. Sia l’indagine della polizia che quella interna dell’università diranno che si è trattato di un rapporto consensuale.

Emma inizia, per protesta, o forse per tentare di non lasciar archiviare tutto, a girare per il campus con il materasso, è il suo materasso, su cui ha subito violenza. Lo porta a lezione, a mensa. Si laureerà, portando quel materasso. È ingombrante, pesa, qualche compagno la aiuta, ma per lo più se lo trascina dietro lei: sola, con questa cosa – correlativo oggettivo esposto – che non sa dove mettere.

È una possibilità, si capisce.

Quasi opposta, ma si capisce, credo, altrettanto dritta, è la risposta di Eva Del Canto a un video di Beppe Grillo, del 2021. Grillo difende il figlio, Ciro, poi rinviato a giudizio, accusato di violenza sessuale di gruppo ai danni di una coetanea: si tenta di minare la testimonianza della ragazza, che denuncia dopo otto giorni, perché a poche ore dall’accaduto, il giorno dopo, lei fa kitesurf. Eva, che si definisce sopravvissuta a una violenza, prende un foglio bianco e scrive “io il giorno dopo sono andata a scuola”. L’hashtag #ilgiornodopo diventa virale. (Un mare, disperante, di materassi inavvertiti).

Le stime sui numeri delle violenze sommerse, quelle che non arrivano mai a denuncia – nemmeno a giudizio – annodano lo stomaco: Manon Garcia in Di cosa parliamo quando parliamo di consenso. Sesso e rapporti di potere (Einaudi, 2022) cita un’inchiesta condotta dal Ministero dell’interno francese nel 2018, secondo cui solo il 10% delle violenze viene denunciato. (Quell’anno, in Francia, le denunce sono quasi 30.000).

Un giorno screenshotto questa vignetta, forse del New Yorker, in cui una ragazza è legata a una sedia in un fiume, in uno di quei congegni che servivano per l’ordalia dell’acqua nella caccia alle streghe. La caption dice più o meno: se non annega, si è inventata tutto.

Susan J. Brison, professoressa di Etica al Dartmouth College, per sopravvivere, si finge morta mentre il suo assalitore prova a finirla. Trent’anni dopo, in un testo di enorme forza e lucidità (Dopo la violenza. Lo stupro e la ricostruzione del sé, Il Margine, 2021) racconta tutti gli altri modi che ha trovato per restare viva. Scrive che “il trauma distrugge le nostre convinzioni più basilari, tra cui quella di poter avere il controllo di ciò che accade“. Il sé che non ha sventato l’evento traumatico viene percepito come inaffidabile, così mancante da essere ridiscusso e, in qualche modo, riplasmato. Nel caso in cui né la fuga né la resistenza siano realizzabili, il sistema umano di autodifesa, sopraffatto, reagisce, poi, con stati di ipervigilanza e attivazione anomali e lunghi strascichi di disturbi post-traumatici.

Mi affascina l’ipotesi sperimentale di alcuni studi neurocognitivi recenti secondo cui la disconnessione che la persona aggredita mette talvolta in atto durante un’aggressione, il cosiddetto freezing, fa sì che i ricordi traumatici si incidano in circuiti neuronali “paralleli” a quelli usuali, gli stessi che alimenteranno in seguito pensieri intrusivi difficili da contrastare, proprio perché, materialmente, incastrati altrove. Come se avessimo dei doppifondi, come se il colpo scollegasse i piani. Brison spiega che se la disconnessione provvisoria dal corpo operata in emergenza si cronicizza, possono insorgere stati di dissociazione: l’autolesionismo o i disturbi alimentari talvolta sono primi tentativi di riprendere contatto con (e controllo di) un corpo scollegato, “sottratto”.

Servirà lavorare sulla paura e sulla rabbia, suggerisce Brison, trasformare quanti più ricordi traumatici possibili in ricordi narrativi: linguistici, meno frammentari, più coerenti, meno intrusivi.

Ma un sé in lotta con sé fatica a trovare un modo di verbalizzare: Brison racconta che spesso ci è più semplice provare empatia per racconti altrui, cui concediamo più indulgenza, e che, in qualche modo, ci si riconnette alla propria ferita anche guardando o ascoltando ferite simili, mentre si lotta senza soluzione “contro la disperazione e l’apparente futilità dell’usare la lingua” come strumento in questo percorso.

Un’altra lettura che ho trovato illuminante nell’allargare o sfumare linee-categorie che tendiamo a tracciare troppo nettamente è stata Il sesso che verrà. Donne e desiderio nell’era del consenso, di Katherine Angel (Blackie edizioni, 2022), che tenta, rifacendosi a Adrienne Maree Brown, di trovare un modo di “perseguire la giustizia senza abnegare il piacere”. Angel, filosofa e studiosa di storia della psichiatria, traccia un percorso in quattro capitoli (Sul consenso, sul desiderio, sull’eccitazione, sulla vulnerabilità), la cui tesi di fondo è che la nozione che usiamo per distinguere il sesso dall’abuso, cioè il consenso, “ha un campo di azione limitato e gli viene chiesto di sostenere un peso troppo grande, di risolvere problemi per cui non ha gli strumenti adatti”.

Il consenso sembra avere natura contrattuale, ma il fatto che possa essere rinegozionato o ritirato in qualsiasi momento rende quasi impossibile le analogie con altri contratti, ma soprattutto, è mancante perché anche le nostre percezioni, la nostra conoscenza dei nostri desideri, lo sono: il limite del mio consenso non è dato una volta per tutte, non è nemmeno astratto, esiste solo in situazione, spesso capisco qual è esponendomi a situazioni inesplorate. E questo, sostiene, Angel, non possiamo perderlo. “Abbiamo bisogno di articolare un’etica del sesso che non cerchi disperatamente di tenere a bada l’incertezza del desiderio. Un’etica sessuale che sia degna di questo nome deve accettare le zone oscure, l’opacità del non sapere”. Accenna alle negoziazioni bsdm, Angel, per arrivare a dire che il sesso è sempre esercitare o cedere il potere, in altalena con una vulnerabilità fortissima. E che serve preservare questa “difficoltà di normare totalmente”, senza metterci a repentaglio.

L’opacità del non sapere è quella del reale: la giurisprudenza deve tracciare linee nette, ma anche le migliori linee possibili possono dirci molto poco della grana, blurred, delle cose.

La gioia avvenire racconta una storia che prova a parlare (anche) di questo, magari senza spiegarlo troppo.

la gioia avvenire stella poli

IL LIBRO E L’AUTRICE – Nata a Piacenza nel 1990, Stella Poli è assegnista di ricerca in linguistica italiana presso l’Università di Pavia e insegna poesia contemporanea nel master editoriale MasterBook. È nella redazione di Trasparenze e La Balena Bianca, e i suoi racconti sono usciti su numerose riviste. La gioia avvenire, finalista alla 34esima edizione del Premio Calvino, è il suo primo romanzo, un esordio “che tiene insieme la densità e il suono della scrittura poetica e la finezza analitica della prosa”. È una riflessione sul consenso, sulla fallibilità della giustizia umana e sulla persistenza delle ferite.

Veniamo alla trama: forse le storie non andrebbero mai raccontate, si trova a pensare Sara, psicoterapeuta trentenne, seduta nello studio di un giovane avvocato. Raccontarle significa farle esistere, e una volta che esistono le storie esigono: un seguito, una conseguenza, una redenzione. Eppure Sara è qui, proprio per raccontare all’avvocato una storia, quella della sua paziente Nadia.

Nadia aveva quattordici anni quando la sua storia si è inceppata. Nascondeva le forme sotto felpe da basket, era brava a scuola e cantava nel coro della chiesa. Un giorno un quarantenne sposato, amico del padre, ha cominciato a corteggiarla. È stato un avvicinamento lento, fatto di movimenti minuscoli, sguardi. Lei all’inizio non ha percepito il pericolo, era curiosa, provocare turbamento in un uomo l’ha fatta sentire bella, vista. Quando ha capito, era troppo tardi. Ci sono voluti mesi, poi, prima che trovasse la forza di sottrarsi. E ci è voluto molto più tempo prima che fosse davvero pronta per denunciare. Ecco perché la sua psicoterapeuta oggi è qui, in uno studio prestigioso nel centro di Milano: vuole un parere legale. È troppo tardi per cercare giustizia? 

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