La giornalista e scrittrice Ritanna Armeni torna in libreria con il romanzo “Il secondo piano”, in cui racconta di un convento che nascose un gruppo di ebrei: “Nella Roma occupata dai nazisti, quella delle suore è stata una Resistenza a tutti gli effetti, condotta in silenzio e per amore delle persone… Non mi sono convertita, ma non mi sento in contraddizione con la mia antica militanza. Il cattolicesimo mantiene un valore che gran parte del mio ‘mondo’ del passato ha abbandonato e negato: l’importanza del noi rispetto all’io”, racconta l’autrice intervistata da ilLibraio.it

Prima o poi doveva accadere che Ritanna Armeni, tra le fondatrici del Manifesto, femminista e con una lunga militanza a sinistra, scrivesse un libro sulle suore. Perché è diventata una loro fervida ammiratrice, perché incarnano, ai suoi occhi, un femminismo fatto di libertà e indipendenza. Perché, pur compiendo opere straordinarie, sono sempre rimaste ai margini della storia ufficiale e perché non di rado sfuggono al cliché, patetico e duro a morire, di chi le considera dimesse, frustrate o fuori dal mondo.

Quelle che racconta nel suo ultimo romanzo Il secondo piano (Ponte alle Grazie), appena arrivato in libreria, sono autentiche avventuriere della carità, trasgressive fino a rischiare la vita e dotate di un coraggio quasi picaresco.

La scena sembra quella di un film. Nella Roma occupata dai nazisti, tra le mura del convento di via Poggio Moiano, vicino alla Salaria, accade qualcosa d’incredibile, ancorché non raro in quel periodo: le suore francescane della Misericordia nascondono quarantasette ebrei (ridotti a dodici nel romanzo per esigenze narrative) ricercati strada per strada dai nazisti dopo il rastrellamento del Ghetto del 16 ottobre 1943. Madre Ignazia, la superiora d’origine tedesca, tiene un diario dove annota tutto quello che accade. Fino all’impensabile: mentre gli ebrei sono al secondo piano, con le imposte chiuse, i tedeschi le chiedono di poter allestire al pianterreno un’infermeria. Madre Ignazia è a un bivio: dire di no è troppo rischioso e rischia d’ingenerare sospetti, dire di sì esporrebbe lei, le altre religiose e gli ebrei a un rischio troppo alto. Sceglie comunque la seconda strada e la geografia del convento diventa paradossale: i persecutori al pianterreno, i perseguitati al secondo. Le suore in mezzo: “Una storia vera, una delle tante di cui non c’è traccia nella storia ufficiale“, spiega, “che ho intrecciato con fantasia in un romanzo ma senza inventare nulla”.

Come le è capitata questa vicenda?
“Il ruolo svolto dai conventi per accogliere e nascondere gli ebrei durante l’occupazione nazista di Roma è stato importante, ma se n’è sempre parlato in maniera marginale. Da cronista, ho voluto approfondire e saperne di più e mi sono imbattuta nelle ricerche di suor Grazia Loparco, salesiana e docente di Storia, che si è occupata a lungo di queste vicende confrontando le testimonianze orali da lei raccolte con le fonti storiche”.

E cosa è emerso?
“Tutte vicende avvincenti e rocambolesche, che riguardano soprattutto conventi e istituti religiosi femminili come quello delle suore di San Giuseppe di Chambéry, a Trastevere, che accolse quasi centottanta ebrei. Tra le varie storie mi ha colpito quella delle francescane di via Poggio Moiano. Una religiosa, oggi novantenne, mi ha indicato il piano dove avevano nascosto gli ebrei che ora ospita alcuni senzatetto assistiti dalla Comunità di Sant’Egidio. La creatività di queste suore fu davvero straordinaria: li nascondevano nei sottotetti, facevano frequentare nella stessa classe bimbe ebree con quelle cattoliche, le donne le facevano vestire da suore, molte hanno anche partorito in convento. Una sintesi, tutta femminile, d’intelligenza, impegno, fede e carità”.

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C’è stata anche una Resistenza fatta dalle suore?
“Gli ebrei protetti e salvati nei conventi sono stati circa quattromilacinquecento. Noi siamo abituati a parlare della Resistenza com’è narrata dai manuali di storia, intrisa di lotte, violenze, angherie, soprusi e delazioni e fatta in nome della Libertà, della Patria, del Socialismo, ideologie di cui è pieno il Novecento. E invece mi sono ritrovata di fronte a un tipo nuovo di resistenza, fondata sul concetto di carità e condotta senza sventolare bandiere, nel silenzio più assoluto, per amore delle persone. Ne sono rimasta affascinata sia per i risvolti curiosi e fantasiosi delle vicende concrete, ma anche per l’aspetto ideale, quello della pura carità, che muove queste donne. Mi sono trovata a dover tradurre il linguaggio delle suore che non è il nostro e a entrare nell’animo di donne che non conoscevo e non ho studiato”.

Ma che ha imparato ad ammirare.
“Prima le vedevo dalla finestra della mia casa di Roma e, lo confesso, ero animata anch’io dal pregiudizio. Lavorando come consulente di direzione di Donne Chiesa Mondo (il mensile femminile de L’Osservatore Romano, il quotidiano ufficiale della Santa Sede, ndr) le ho conosciute personalmente e sono rimasta molto colpita dal fatto che fossero diverse dall’immaginario laico comune. Per noi la religiosa è l’idea di costrizione incarnata da suor Gertrude dei Promessi Sposi, quella della corruzione dei conventi e del degrado della Religieuse di Diderot oppure quella della suora povera, emarginata e impotente raccontata da Matilde Serao ne L’anima semplice. Negli ultimi anni è venuta fuori la suora giocherellona delle serie televisive. Tutte immagini a mio avviso parziali e fuorvianti”.

Allora chi sono davvero?
“Ho incontrato persone straordinarie: docenti, archeologhe, studiose, missionarie, infermiere. Tutti pensano che ricevano un sussidio per vivere e invece vivono del proprio lavoro, nel quale coniugano autorità e comunità. Le suore che vanno in missione negli angoli più remoti e disgraziati del mondo sono consapevoli di dire cose che i potenti della terra non possono e non vogliono dire. Per questo, ora vogliono essere presenti a Davos o nei forum sui cambiamenti climatici. L’ho trovato un mondo ricco e affascinante sia pure con molte contraddizioni, come la ricerca della parità e di un nuovo tipo di leadership. Senza dimenticare che nella chiesa cattolica su un milione di persone, gli uomini sono trecentomila e le donne settecentomila”.

I silenzi di Pio XII sulla Shoah hanno alimentato la “leggenda nera” secondo la quale Pacelli fu indifferente alla sorte di milioni di ebrei perseguitati e uccisi dai nazisti. Lei cosa ne pensa?
“La ‘leggenda nera’ andrà avanti nella storia. Mi sono fatta l’idea che le suore hanno esercitato coraggiosamente una carità derivante dalla loro vocazione, che non è stata intralciata dall’alto, ma della quale si sono assunte pienamente tutta la responsabilità”.

Il Papa sapeva o no?
“Sì, ma la responsabilità era dei conventi nei quali, come accadde a Firenze, potevano irrompere i tedeschi e fare perquisizioni. Dal Vaticano arrivavano anche numerosi viveri portati in molti casi personalmente da suor Pascalina, l’assistente di Pio XII, altra donna di grande carattere”.

Nel libro c’è un ragazzo, Giulio, che fa la spola tra il Vaticano e gli istituti religiosi portando delle buste di documenti falsi da consegnare agli ebrei.
“È Giulio Andreotti. Tra le mura leonine c’era una tipografia dove venivano stampate carte d’identità e tessere annonarie con nomi fittizi”.

Un’altra figura intrigante è quella di suor Lina, testimone minimo della storia, che si prende cura di Lele, il bimbo ebreo che oggi ha 86 anni e lei ha incontrato per la stesura del romanzo.
“Suor Lina è una novizia, una ragazza molto semplice, che mi ha permesso di affrontare il tema della maternità. In molti libri e film le suore sono considerate donne di serie B perché non hanno figli. Quando ho fatto leggere le bozze del romanzo alla superiora di un convento napoletano mi ha ringraziato per non averlo fatto finire con suor Lina che tra la vocazione e la maternità sceglie quest’ultima fuggendo dal convento. Sarebbe stato un cliché. Anche se suor Lina è molto legata a Lele che accudisce con grande amore”.

È giusto aprire il sacerdozio alle donne?
“Le suore stanno acquistando una grandissima consapevolezza del loro valore. Mi ha molto colpito che, di recente, l’Unione delle Superiori generali abbia lanciato una campagna per la leadership. Hanno pensato una cosa che non hanno detto esplicitamente: basta con le battaglie sul sacerdozio femminile, noi siamo le uniche che possiamo rappresentare i poveri e i diseredati della terra perché andiamo nei posti da dove tutti scappano. È un mondo vitalissimo, in fermento”.

Come spiega l’attrazione che la clausura esercita su molte donne, anche laureate e in carriera, che decidono di lasciare tutto per abbracciare una vocazione “estrema”.
“Perché la clausura, le cui regole non sono più quelle di un tempo, rappresenta un atto di estrema libertà, significa riappropriarsi di sé stessi nella solitudine entrando in rapporto diretto con Dio. È un atto fortissimo di emancipazione e di padronanza di sé”.

Ma lei si è convertita?
“No, non ho il dono della fede, se è un dono, e non sono diventata cattolica. Anche questo sarebbe un luogo comune come quello che le suore inquiete per realizzarsi devono abbandonare la vocazione per sposarsi e avere dei figli”.

Allora come si concilia il suo passato di militante comunista con il presente?
“Non solo si concilia benissimo, ma è l’unico modo per essere coerenti con quello che ho vissuto, perché nel cattolicesimo si mantiene un valore che gran parte del mio ‘mondo’ del passato ha abbandonato e negato: l’importanza del noi rispetto all’io. Il noi nel mondo religioso ha ancora una grande importanza. Oggi invece nella politica, nella cultura, dove non c’è più una classe di intellettuali preoccupata del popolo, nel sociale il primato dell’io e la forza del leader sono diventati dominanti e hanno prodotto molti danni. In questo mondo trovo grande continuità in quello in cui ho creduto, la possibilità che uomini e donne costruiscano qualcosa insieme”.

L’ha sorpresa l’affetto per Benedetto XVI?
“No, perché è stato un Papa che è entrato in contatto con la gente, anche in modo agonico, in forma di lotta. Il rapporto tra Ratzinger e il mondo laico è stato molto combattuto rispetto, ad esempio, a quello di Francesco e anche gli scontri creano, paradossalmente, un’intimità. Io, pur rispettandolo, non l’ho mai sentito vicino alla mia sensibilità perché aveva un linguaggio estremamente rigoroso, teologico, un po’ astratto, tutto incentrato sui valori. Mi è parso di rivedere con lui le dispute ideologiche che hanno funestato larga parte della mia vita precedente. Pur nutrendo grande affetto e ammirazione per entrambi, nell’approccio al mondo papa Francesco mi rappresenta di più, lo sento più vicino”.

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