Un ritratto generazionale, e una protagonista che è lo specchio di una generazione (con la valigia sempre pronta e un futuro da definire): “Tutte le giostre che ho chiamato casa” segna l’esordio di Michela La Grotteria, che su ilLibraio.it racconta alcuni grandi romanzi che l’hanno accompagnata durante la stesura del libro, firmati da autrici e autori come Margaret Atwood, Elif Batuman, Sylvia Plath, Sally Rooney e J. D. Salinger
Michela La Grotteria è nata a Genova nel 1999. È laureata in Italianistica e Culture letterarie europee. Lavora come interprete freelance dal francese e collabora con alcune testate culturali. I suoi racconti sono apparsi su Altri animali, Bomarscé, Grado Zero, Blam! e altre riviste.
Tutte le giostre che ho chiamato casa (Giulio Perrone editore) è il suo primo romanzo, con il quale ha vinto il premio Walter Mauro 2023.
La trama vede come protagonista Nadia, ventitré anni, e molte cose da cui è scappata negli ultimi cinque anni. Un lutto non ancora elaborato del tutto, amicizie sparse per il mondo, una relazione a distanza che si protrae da tempo… La accompagna la sensazione di essere opaca, annullata, assente. Un romanzo attuale e generazionale, nel quale la protagonista cerca di fare ordine nella sua vita, anche attraverso un diario, l’unica cosa lineare della sua esistenza, e l’incontro con la nuova coinquilina: Annette, da cui può imparare la bellezza del disordine, del mettersi in discussione e vivere in bilico, in punta di piedi senza cadere.
Tutte le giostre che ho chiamato casa ricompone “un ritratto generazionale, dove le tappe della vita sembrano pezzi di un puzzle che non combaciano mai veramente”; e Nadia è lo specchio di una generazione con la valigia sempre pronta e un futuro da definire.
All’autrice abbiamo chiesto di selezionare alcune opere che l’hanno ispirata per la scrittura del romanzo:
L’idiota e Aut Aut, Elif Batuman
Selin, nel 1995, ha diciotto anni, è la prima della sua famiglia turca ad avere accesso agli studi superiori in America, e frequenta il primo anno di Harvard. L’idiota è stato definito il miglior romanzo di formazione dei nostri tempi, e non mi sento di oppormi. L’originalità di Batuman è spiccata, specie nella sua scelta di avere come protagonista una ragazza che arriva all’università convinta della sua superiore intelligenza – legge libri su libri, più libri di chiunque altro – ed è presto costretta a rendersi conto che il mondo è vasto, strano, complessamente banale, e che lei, come tutti gli altri, non ha ancora i mezzi per decifrarlo. Credo che il personaggio di Nadia abbia qualcosa dello sguardo di Selin sulle cose; uno sguardo acuto, critico, interrogativo e un po’ smarrito soprattutto quando si mette in discussione, quando le convenzioni sociali le sfuggono, e quando disgraziatamente inizia a sperimentare l’amore, rendendosi conto che i libri, per capirlo, non servono poi a tanto.
Aut Aut è il seguito, ambientato al secondo anno di università e incentrato sull’iniziazione di Selin alla vita sessuale e alla scrittura, e personalmente lo trovo ancor più riuscito del primo volume.
“Non mi esaltava l’idea di descrivere la mia camera da letto, né quella di qualcun altro, o la mia casa d’infanzia, o un posto che conoscevo bene. Volevo scrivere un romanzo sui rapporti tra le persone e sulla condizione umana”.
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Sofia si veste sempre di nero, Paolo Cognetti
Sofia Muratore è un personaggio che sa stregare. Ha qualcosa della sad girl di cui ha scritto Sara Marzullo, ma solo perché è sempre raccontata da altri o attraverso altri, in tutti i racconti che compongono questo romanzo a mosaico. Dalla nascita alle tensioni in famiglia nell’adolescenza, dalla scoperta del teatro all’approdo a New York, il ritratto di Sofia piano piano si completa di tutti i tasselli, i posti e le persone della sua vita (la zia, su tutti, memorabile). La scrittura perfetta di Cognetti ci fa sentire le inquietudini di Sofia, un po’ dettate dall’età, un po’ dalla sua storia familiare e dal contesto storico in cui si trova a vivere, e che sembra svuotato di senso rispetto a quello di altre generazioni. La frammentazione è proprio uno dei punti di forza del romanzo, ed è forse il modo migliore per raccontare una vita umana: il racconto organico e strutturato, qui fuori nella realtà, quasi mai esiste.
“ – Non importa. Piangi e basta.
– Non posso piangere e basta. Chi sono? Che cosa mi è successo? Ho bisogno di sapere la mia storia”.
Franny e Zooey, J. D. Salinger
Col rischio di essere di parte, perché è il mio libro preferito, dirò che Franny e Zooey non invecchierà mai male. Nonostante le coordinate temporali siano esplicite e ferme all’anno 1955, i giovani fratelli Glass potrebbero vivere anche al giorno d’oggi, e l’impeto delle loro insoddisfazioni su sé stessi e la società in cui vivono ci arriverebbe con altrettanta forza. Ex bambini prodigio, come i loro fratelli maggiori, dei quali uno si è tolto la vita e un altro è morto in guerra, i poco più che ventenni Frances e Zachary, nello smarrimento dei loro vent’anni, per lo più discutono. Tra di loro, o Franny con il fidanzato Lane, o Zooey con la madre, o entrambi al telefono con il fratello maggiore Buddy. Se dovessi salvare una sola cosa di questo capolavoro sarebbero i dialoghi tra questi personaggi in grado di passare nel giro di poche battute da una crisi spirituale-religiosa a frasi del tipo: «Il tuo cuore, Bessie, è un garage autunnale».
Annette per certi versi mi ricorda molto Franny, con le sue uscite acide, e le sue prese di posizione tra l’annoiato e il polemico. Quella di porsi contro tutto, contro il Sistema, è la scelta più facile e più inefficace da fare quando ci si sente frustrati con la propria vita e non si sa bene da dove iniziare per cambiarla. Eppure, trovo i personaggi che si pongono così incredibilmente affascinanti, a volte insopportabili da leggere ma molto divertenti da scrivere.
“Se proprio vuoi muovere guerra al Sistema, allora spara le tue cartucce da brava ragazza intelligente: perché là c’è il nemico, e non perché non ti piace la sua pettinatura o la sua dannata cravatta”.
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Parlarne tra amici, Sally Rooney
Citare Sally Rooney come esempio di libro generazionale? Avanguardia pura. Col rischio però di risultare prevedibile, e con buona pace di chi ritiene Rooney un caso di successo commerciale e scarsa qualità letteraria, Parlarne tra amici è stato rivoluzionario. Le vite di Frances e Bobby attraversano con intensità corsi in università, lavoretti estivi, conflitti con i genitori, solitudini e rapporti di irreplicabile intimità. La frequentazione di una cerchia di amici più maturi, sposati e nei trent’anni, con una carriera avviata al successo, sottolinea per loro lo scarto con la confusione dei venti e con i tentativi un po’ alla cieca di trovare il proprio futuro. Ma è davvero così, alla fine? O l’incertezza sfiora tutte le età della vita, e le persone non si possono ridurre a stereotipi generazionali? Sally Rooney è una maestra nel problematizzare le sottigliezze umane, e nello scongiurare l’effetto “eroe/eroina” per i suoi personaggi, mostrandoci invece tutte le luci e ombre che li illuminano.
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La campana di vetro, Sylvia Plath
In esergo ho inserito una frase da La campana di vetro, perché mentre lo scrivevo l’irriverenza e la fragilità di Esther Greenwood mi tornavano spesso in mente. Esther arriva a New York nell’estate del ’53 per lavorare un mese nella redazione di una rivista di moda e costume. La frizione tra la provincia da cui proviene e la metropoli è abissale, e anche quella tra la sua indipendenza e ambizione e i rigidi schemi che le istituzioni adulte le vogliono imporre.
“L’ultima cosa che volessi era la «sconfinata sicurezza» ed essere «il luogo da cui partisse una freccia». Volevo cambiamenti ed entusiasmo e partire io stessa in tutte quante le direzioni, come le frecce colorate da un razzo del 4 luglio”, dice Esther svincolandosi dalla prospettiva di un matrimonio noioso con un ragazzo banale. Come essere una voce fuori dal coro, e al contempo essere felice? Esther ci prova con la scrittura prima, col suicidio poi, senza avere molto successo in entrambi. Plath è morta un mese dopo l’uscita del libro, del quale purtroppo è riuscita a vedere solo la tiepida accoglienza della critica, e non lo sconfinato successo che riscuote in questi anni tra il grande pubblico, meritatamente.
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La donna da mangiare, Margaret Atwood
Quando incontrai Atwood al Festivaletteratura di Mantova nel 2019, dopo un incontro dedicato a Il racconto dell’ancella, e le porsi una vecchissima edizione de La donna da mangiare per il rito un po’ feticistico dell’autografo, mi disse che non pensava a quel suo esordio da tanto, e che le faceva piacere firmarlo. La cosa mi inorgoglì, anche perché il libro allora era fuori catalogo e io, da post-adolescente con chiari complessi di superiorità intellettuale, ci tenevo che si notasse che leggevo fuori dalle scelte di massa.
Oggi il libro è disponibile in una nuova edizione, i miei gusti in fatto di libri sono un po’ meno snob, ma La donna da mangiare resta un romanzo istericamente brillante e spregiudicato. Le richieste della società di Toronto negli anni ’60 a una ragazza come Marion non sono forse le stesse di oggi, ma identica è la pressione che viene messa sulle ragazze affinché si confinino in certi ruoli, certe caselle, affinché soddisfino certe aspettative e non si spingano a chiedere di più. Lo scontro con le ambizioni di Marion è dunque inevitabile, e gli esiti che Atwood fa prendere alla storia sono geniali, esilaranti, sovversivi. Avere vent’anni è difficile per tutti, ma per le ragazze di più.
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