Dopo il duetto all’ultimo Sanremo con Alfa sulle note di “Sogna, ragazzo, sogna”, Roberto Vecchioni è protagonista anche in libreria con “Tra il silenzio e il tuono”, per cui ha scelto la forma epistolare (“Sono io che scrivo lettere alla mia coscienza…”). L’80enne cantautore ed ex professore si racconta a tutto campo con ilLibraio.it: “Ha ragione Platone nella sua famosa distinzione. Convivono in noi una parte votata all’avventura e una incline allo stanziamento… ho fatto di tutto per essere doppio, in ogni modo”. Quanto alla fragilità delle nuove generazioni: “Gli adulti e gli anziani hanno troppe cose da fare e pensano poco ai figli e ai giovani in generale. E poi non li lasciano sbagliare. Non solo, non si vuole capire i ragazzi, la loro letteratura, la loro musica, il loro cinema…”. Tra i tanti temi affrontati nell’intervista, anche la perdita del figlio e la fede…

È il giugno 1962. Roberto Vecchioni sta per compiere sette anni e suo padre “per farsi figo” lo porta alla pizzeria Santa Lucia a Milano. Quella frequentata dagli artisti. Tra loro c’è un omone in particolare che lo colpisce e chiede chi sia. “Quello è Eugenio Montale, un grande poeta”. “E che cosa è un poeta?” chiede. “Un poeta è uno che vede ciò che noi non vediamo”.

Da allora esprimere la “visibilità dell’invisibile” attraverso musica e parole diventa per Vecchioni un richiamo irrinunciabile. Talvolta vorrebbe sottrarsi, ma non può farne a meno. Anche pagandone un caro prezzo. Nelle cinquantatré lettere che compongono Tra il silenzio e il tuono (Einaudi) il cantautore e professore ripercorre la propria vita dando voce, in presa diretta, al sé bambino, giovane e adulto rivolgendosi a un fantomatico nonno che però non risponde alle sue missive. Anzi, ne indirizza di altre verso personaggi immaginari e reali amici come Sergio Staino, Corrado Augias, Walter Veltroni. Nessuno dei temi cari al grecista e paroliere manca: il doppio, la fede, la filosofia, la poesia, la musica, il lutto. Ma su tutto l’amore. Eros e philìa. Silenzio e tuono, per l’appunto. Come il verso contenuto in Chiamami ancora amore che lo ha fatto trionfare a Sanremo nel 2011.

Quello stesso Sanremo in cui solo pochi mesi fa, duettando con Alfa sulle note di Sogna, ragazzo, sogna ha dato ulteriore riprova di quanto prestare ascolto e voce ai ragazzi, al loro linguaggio, alle loro aspirazioni rappresenti per lui un’esigenza esistenziale, come lo era il teatro per i greci. “Un raduno d’anime, un esame di coscienza totale, un immenso social ante litteram”, scrive in una delle lettere.

Non ha paura di “sporcarsi le mani” oggi Vecchioni, di apparire meno intellettuale se guarda di buon grado come le nuove generazioni decidono di raccontarsi e di parlare anche di libri. Le sue due anime, in perenne battaglia per oltre ottant’anni, si stanno pacificando. E lo testimonia in questa intervista per ilLibraio.it.

Tra il silenzio e il tuono roberto vecchioni

Ha scelto la forma epistolare per questo suo ultimo lavoro, Tra il silenzio e il tuono (Einaudi). C’entrano i classici?
“Ha sicuramente delle radici classiche. Volevo utilizzare una forma ormai desueta, ma farlo a modo mio. Non si tratta infatti di un epistolario puro, non c’è botta e risposta. Ci sono le lettere del ragazzo che cresce indirizzate al nonno che hanno sempre una data. Le altre, scritte dal nonno, senza data, sono rivolte a personaggi immaginari e ad amici veri”.

Ragazzo e nonno sono sempre Roberto?
“Sono due parti della stessa persona: una è il corpo, sono io con la mia vita, con il tempo che trascorre; l’altra è la mia anima. Sono io che scrivo lettere alla mia coscienza, perché rimangano lì”.

Quello del doppio è un argomento ricorrente per lei, fin da quando incontrò il greco. “Imparai che, come in poesia, anche il mondo è duale”.
“Tutto è duale nel mondo, fin dall’inizio della storia del pensiero. Ci sono Eraclito e Parmenide: essere e divenire. Da lì nasce tutta la filosofia. E noi siamo doppi. Ha ragione Platone nella sua famosa distinzione. Convivono in noi una parte votata all’avventura e una incline allo stanziamento. Il silenzio e il tuono”.

Il cantautore in tour e il professore in aula.
“Sì, ho fatto di tutto per essere doppio, in ogni modo”.

In una recente intervista a Repubblica afferma: “Sarei stato zoppo se non avessi tenuto l’altra gamba nella scuola”. A che punto è la convivenza tra le sue due anime?
“A volte si vogliono bene, a volte si vogliono male. Lo scrivo nel libro, ma è il tema di almeno una trentina delle mie canzoni, a partire da Milady”.

“Milady non hai voce e canti / In un teatro a fari spenti. / Milady il cuore è un soldatino /
Che scrive lettere a nessuno”.
“Milady è la musica che mi porta via quando invece vorrei restare a casa. È il contrasto che mi accompagna da sempre. È la battaglia, essenziale, che abbiamo dentro di noi tra la tensione al futuro, ad andare avanti, e il bisogno del ricordo. Come nel brano su Alessandro Magno, Alessandro e il mare”.

“E mentre si voltava indietro / non aveva niente da vedere; / e mentre si guardava avanti
niente da voler sapere”. Lei guardando avanti cosa vede?
“Vedo momenti in cui le mie due anime si uniscono e alla fine stanno bene insieme. Ma il è frutto del lavoro di una vita. Bisogna continuare a farsi capire dall’altro dentro di sé, fino a non avere più screzi. A 80 anni si riesce, prima no”.

E i ragazzi? Si parla di una generazione segnata dalla fragilità.
“La vita oggi offre poche opportunità ai ragazzi. La fragilità è tanta, ma è sempre stata una nota tipica della gioventù, tra i 16 e i 23 anni. Ci sono stati momenti storici in cui si è cercato di reagire. Adesso è molto più difficile”.

Perché?
“Perché c’è un gap generazionale decisamente più forte. Gli adulti e gli anziani hanno troppe cose da fare e pensano poco ai figli e ai giovani in generale. E poi non li lasciano sbagliare”.

Ed è un male?
“È una cosa tremenda, perché invece bisogna lasciarli sbagliare. Non solo qualche volta. Gli adulti non vogliono capire i ragazzi, non vogliono entrare nei loro slogan, nei loro schemi, nelle loro strutture mentali che sono particolari, ma importanti e belle. Occorre comprendere che la loro letteratura, la loro musica, il loro cinema sono diversi dai nostri. Ma se li amano, avranno delle ragioni”.

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È cambiato anche il modo di discutere dei libri da parte delle nuove generazioni. Lei che idea si è fatto di fenomeni come #BookTok e dell’uso delle piattaforme?
“Penso sia una novità straordinaria, un’invenzione creata dai più giovani per loro. È un ottimo sistema di comunicazione che rappresenta il loro modo di affrontare la vita e di rapportarsi agli altri attraverso le loro passioni. Spesso persino con più precisione e attenzione di quanto presumiamo. Altre volte vengono fuori delle boiate pazzesche da questi esperimenti, ma ci sarà sempre qualche buon motivo per cui ne sarà valsa la pena”.

“I racconti rendono possibile l’emergere di una comunità, mentre lo storytelling dà forma solo a una community, che è la versione mercificata della comunità”. Così il filosofo Byung-Chul Han nel suo ultimo lavoro “La crisi della narrazione”. Concorda?
“Sono perfettamente d’accordo. Nel mio libro mi soffermo sull’uso ormai dominante del linguaggio pubblicitario, come se in ogni istante dovessero venderci qualcosa. Ma c’è un altro aspetto preoccupante”.

Quale?
“Oggi in pochi seguono la narrazione punto per punto. Preferiscono i riassunti. Anche i ragazzi cascano in questa trappola del sintetico, perché non hanno l’abitudine alla lunga lettura. Non li incolpo per questo. Però sicuramente si perdono molto a non avere questa predisposizione”.

Nel libro riecheggia spesso Dio. A partire dalla lettera indirizzata a Staino: “Quando gli sarai davanti cantagli ‘Luci a San Siro’ come sai fare tu: vedrai che capirà”. A che punto è il suo rapporto con Dio?
“È molto buono. Sono un credente. Mi piace stuzzicarlo e mi diverte vederlo in varie forme. Non ne individuo perfettamente l’essenza: potrebbe essere il Dio di Giordano Bruno o quello del Papa, però c’è sicuramente una sovrintendenza universale alle cose che accadono per una causa e con un effetto”.

Secondo Pascal “la fede differisce dalla prova. L’una è umana, l’altra un dono divino”.
“Beh, la prova è nella libertà che abbiamo di fare tutto, anche il male. Credo che non possano esserci altre spiegazioni. E poi il Dio che amo è Cristo, che ha preso il corpo, lo ha valorizzato insieme alla spiritualità. Ciò che ha fatto e ha detto rimane ancora oggi universale”.

Universale come l’amore, eros e philìa, a cui dedica diverse pagine. A quale delle due accezioni si sente più affine?
“Probabilmente quando si è molto giovani l’eros è preponderante. La philìa necessita di anni in cui comprendi cosa c’è realmente nell’altra persona. Certo, i ragazzi hanno gli amici, ma non è proprio la philìa completa”.

“Definirla solo amicizia è riduttivo, improprio, parziale. La philía è compenetrazione, inclusione, replicanza” scrive.
“L’eros è il tuono, sublima l’attimo ma teme l’ansia, la notte, la nebbia: è desiderio, cioè continua mancanza, niente basta mai. Fiume che vuole straripare, trascinare tutti con sé: è vertigine che ti lascia attonito, mai abbastanza. La philía è il silenzio, un silenzio a colori, ognuno al posto giusto, nel momento giusto; non si accende, non s’infiamma: brilla di una gamma riposante agli occhi e al cuore; non si attenua mai e non dilaga; è lì a mostrarti gli oggetti che hai fuori e dentro la tua vita come li vuoi, come li senti”.

Inclusi il dolore e il pianto per il lutto che ha vissuto. Eppure invoca: “Nessuna fine ti addormenti l’amore”.
“È bella quella frase, sì, chissà com’è venuta…”.

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Come è stato mettere nero su bianco la perdita di un figlio?
“È stato prima di tutto un dimenticarmi della retorica. Tutte le lettere in cui parlo di mio figlio sono per metafora. Quando mi rivolgo a sua madre, invece, lì il pianto diviene protagonista. È passato un anno, eppure la sento chiudersi in bagno e piangere. È qualcosa che non ha niente a che vedere con la razionalità, che non dovrebbe esistere nel mondo. Però esiste, è capitato a noi. Soffro come un dannato, ma il dolore materno è ancora più straziante”.

“I grandi autori ci portano verso un perfetto finale che doveva essere quello e nessun altro. Ma altri, altrettanto grandi, ci lasciano sospesi in aria a un passo dal confine: te la consegno incompiuta questa sinfonia, il resto immaginalo”. A quale delle due categorie di autori si sente di appartenere?
“Sono più vicino alla seconda, quella di Schubert. Non sono certo né Beethoven né Mozart. Sono anch’io incompiuto, in diverse cose. Soprattutto sono uno che non ambisce ad avventure epiche. Preferisco le opere che concentrano tutta la passione in pochi minuti. Schubert è stato un maestro in questo, in particolare nei quartetti”.

E in letteratura?
“Per lo stesso motivo preferisco Petrarca a Dante, Pascoli a Carducci. Magari gli altri sono più bravi, più importanti, hanno preso dei Nobel. Ma per conquistarmi un autore deve darmi questo tipo di emozione: fulminea, brillante nella quale brucia umanità. Degli altri riconosco la grandezza, ma non mi provocano lo stesso brivido”.

In uno dei passaggi del libro affronta “l’assoluto mistero degli ingorghi autostradali”, che sono poi ingorghi esistenziali di cui siamo sempre più in balia.
“Oggi siamo così: intasati. E non abbiamo nemmeno vie d’uscita collaterali, siamo obbligati a mantenere questa strada. È nell’immobilità obbligata che emerge il preistorico homo homini lupus. La cosa peggiore è che, mentre in autostrada sai dove vai, nella vita di oggi sembra che non sappiamo nemmeno dove stiamo andando”.

Da piccolo lei voleva essere un portiere. Conserva ancora quell’indole?
“Sì, certamente. Perché il portiere è diverso da tutti gli altri, è folle ma anche un po’ solo e spesso incompreso. È come un principe con il suo regno: gli altri si azzuffano per il campo, lui invece è il signore del suo spazio, è libero. Sì, mi sento ancora un portiere”.

Si aspettava che il libro avesse questo riscontro?
“Non me l’aspettavo. È veramente bello essere primo in classifica (nei giorni dell’intervista l’ultimo libro di Vecchioni ha raggiunto la vetta della top ten, ndr), non avevo mai avuto questa soddisfazione. Però anche se il libro dovesse scendere, chi se ne frega. Ciò che importa è che lo leggano un po’ di persone. Quelle che evidentemente hanno il mio modo di emozionarsi. E sono felice che ce ne siano sempre di più”.

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Fotografia header: Roberto Vecchioni - foto Getty Editorial 26/02/2024

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