Con la lucidità di un filosofo del passato, Marilynne Robinson affronta i temi della decadenza delle discipline umanistiche in un’ottica allo stesso tempo rivoluzionaria e conservatrice. Passando dalle neuroscienze alla globalizzazione, da Shakespeare al profeta Geremia, nella raccolta di saggi “Quel che ci è dato” la grande scrittrice americana scrive un nuovo manifesto dell’umanesimo, al fine di recuperare la sacralità del sapere – L’approfondimento

In Italia Marilynne Robinson è conosciuta soprattutto per le trilogia composta da Gilead, Casa e Lila, un trittico tanto più straordinario se si considera che è stato composto in un solo decennio, e che rappresenta un unicum nel processo di scrittura dell’autrice americana. È proprio con Quel che ci è dato (traduzione di Eva Kampmann, minimum fax) che Robinson torna invece nella sua terra natia letteraria, quella del saggio storico, filosofico e religioso.

Le coordinate culturali nella quale si muove l’opera possono sembrare insidiose a un pubblico nostrano: si parla, tra le altre cose, di calvinismo radicale, di teologia shakespeariana e di neuroscienze. Eppure – l’autrice lo rende chiaro da subito – la meta che raggiunge è comune a tutti gli esseri umani, non importa quale sia la loro professione religiosa, il partito politico, il colore della pelle.


Fin dalle prime pagine, The Giveness of Things ci mette di fronte a una difficile omonimia, una strana coincidenza lessicale che oggi, più che mai, divide il mondo del sapere. Ciò-che-è-dato rappresenta letteralmente la materia prima del metodo scientifico, quello dove dominano i data, la complessa relazione tra gli oggetti nello spazio e nel tempo, come avrebbe detto Wittgenstein. Eppure dimenticare il significato propriamente umano del verbo “dare” significa rinunciare a qualcosa nel faticoso processo conoscitivo; qualcosa di dato è sempre dato da qualcuno, e con uno scopo preciso, seppur oscuro.

La critica che Robinson muove alle neuroscienze è nell’aria da alcuni anni, ma la teologa americana non manca di aggiungere una sua personale riflessione. Sapere in quale area del cervello sia localizzata la paura ci dice qualcosa sulle sensazioni che prova chi nasconde un segreto, o sulla sensazione di un antilope circondata da leoni? Se avessimo potuto scattare un imaging del cervello di Shakespeare, ne avremmo potuto tracciare la genialità?

E qui avviene il grande cambio di prospettiva, il salto nel buio dell’umanesimo: la scienza deve rinunciare alla propria pretesa di unicità di metodo, per evitare di cadere nella trappola dell’ideologia. Come già compreso da fronti scientifici molto più rivoluzionari (in primis, dalla teoria delle stringhe) a essere unico non è il metodo o lo sguardo: è la materia stessa, quella di un pianeta unico in tutto ciò che abbiamo potuto osservare finora. Un mondo popolato di esseri umani, di musica, di tecnologia, di arte, di guerra.

“Un insetto è più complesso di una stella”. Robinson torna più volte sulla meraviglia di vivere in un giardino del tutto inusuale nel cosmo, e questo dato assolutamente unico non può che significare devozione, responsabilità, dovere morale di cura verso il mondo e verso gli altri. Il calvinismo che si ripresenta in maniera preponderante nei saggi non è solo una delle vie proposte per raggiungere una scientificità trascendentale, ma un vero proprio modello di religiosità laica e universale.

“Il reverendo Martin Luther King parlava la lingua di quella che è stata definita la religione civile americana: «Noi consideriamo verità di per sé evidenti, che tutti gli uomini sono sta- ti creati eguali e che il Creatore li ha dotati di alcuni diritti inalienabili”. Se l’umanesimo calvinista qui proposto deve fungere da base per rinvigorire le scienze, ormai votate soprattutto all’ottenimento di nuove tecnologie produttive, non bisogna dimenticare che la religiosità è in primo luogo un parametro di vivere civile: lo stesso che permise ai primi pellegrini del Nuovo mondo di convivere pacificamente con confessioni differenti.

Quel che ci è dato non può che essere un testo arduo, che richiede un bagaglio ampio ed eterogeneo, che prega chi legge di non spaventarsi per i numerosi salti di argomentazione e di fiducia che la scrittrice richiede.

Eppure salta all’occhio che il libro è quanto di più organico ci si possa augurare, poiché tutto confluisce in un auspicio teorico che attendiamo nel futuro: quello di un umanesimo che dimentichi le distinzioni demografiche a favore di una distinzione morale; che sappia misurare il senso nascosto delle cose. Che sappia, in fin dei conti, restituirci il potere di essere umani.

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