Jack Kerouac e la Beat Generation, Armistead Maupin, Rebecca Solnit, Dave Eggers e Vendela Vida: San Francisco è stata ed è percorsa da grandi scrittori, che hanno saputo raccontare la metropoli in tutte le sue sfaccettature e nei suoi contrasti. Attraverso le loro parole e le loro storie possiamo farci guidare per i quartieri e le impervie salite della città simbolo della Bay Area, che racchiude in sé le meraviglie e le contraddizioni della California, e in cui la scena delle librerie indipendenti appare assai dinamica – Il reportage

San Francisco sonnecchia affacciata alla baia, imperturbabile al vento che la spazza senza sosta. Una brezza tesa che non basta a diradare la foschia che copre le sue Hills e i pilastri del Golden Gate, invisibili per lo scorno dei turisti.

A guardarla oggi, con i suoi ritmi lenti, le sedie di bar e ristoranti occupate da startupper rampanti alla ricerca del Klondike, non sembra la città delle rivoluzioni, dei beat e della Summer of Love, il sogno democratico infranto nel macrobiotico. Le case vittoriane, due o tre piani, intarsi leziosi e colori pastello, del quartiere di Haight-Ashbury, coacervo di musicisti e hippy, quello in cui Hunter Thompson ha vissuto per un paio d’anni e che racconta in un pezzo esilarante su freak e psichedelia uscito per il New York Times nel maggio 1967, è oggi un dedalo di vie borghesi, in cui il profumo di rivolta sociale viene cercato da giovani pellegrini tra le mura della Bound Together, la libreria anarchica, tra un classico ottocentesco e un opuscolo che spiega come equipaggiarsi per una manifestazione. 

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A poche centinaia di metri la più moderna Booksmith, con un calendario serratissimo di presentazioni, è una delle librerie più amate di San Francisco: mentre ero in città, alloggiando proprio nel palazzo di fronte, è arrivata da New York Jennifer Egan, in tour con la sua ultima uscita La casa di marzapane (Mondadori). Perché, strano a dirsi per i nostri occhi italiani, ma qui le librerie sono tantissime, frequentate, e non hanno bisogno di vendere alcolici e torte di carota per sopravvivere: scaffalature di legno, carta rilegata, neanche un astuccio in esposizione. 

North Beach e i luoghi della Beat Generation

Parlando di librerie, la palma della celebrità, neanche a dirlo, va al City Lights Bookstore di Lawrence Ferlinghetti. Anche questa libreria, a differenza di alcune sue più celebri cugine americane ed europee, non ha seguito il richiamo della paccottiglia e si presenta così come doveva essere negli ultimi anni di vita del suo ideatore. La sedia “del poeta”, da cui si può tenere banco durante reading più o meno improvvisati, è ancora nel suo angolo accanto alla finestra, al reparto poesia al primo piano. Al piano terra si vendono le ultime uscite e a quello interrato saggistica e letteratura di genere. 

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San Francisco – foto di Matilde Quarti

I beat, d’altronde, non sono mai stati snob, e questa veracità si respira in tutto il quartiere di North Beach, rifugio di scrittori e sbandati, a partire dal bar Vesuvio, affacciato sulla stessa via della libreria, la Jack Kerouac Alley, che prende il nome dal grande scrittore (grazie a una petizione lanciata da Ferlinghetti nel 1988), non tanto per i suoi meriti letterari quanto per la sua abitudine di tirar tardi al bancone.

Esiste un “bar di Kerouac”, infatti, ma non una “casa di Kerouac”: lo scrittore amava dormire sui pavimenti di amici e conoscenti, ma per i pellegrini del beat al 29 di Russel Street c’è la casa di Neal e Carolyn Cassady, dove l’autore ha vissuto e che ha visto nascere uno dei più famosi triangoli della letteratura.

L'urlo, Allen Ginsberg, Il Saggiatore

Restando a North Beach, un’altra tappa fondamentale è il caffè Trieste, a pochi isolati dal City Light Bookstore, ritrovo di vecchi e nuovi abitanti del quartiere e prima espresso house della west coast. Il caffè Trieste, oltre a essere stato un bar frequentatissimo da Ferlinghetti e dai beat (come tutti quelli del quartiere, d’altronde) è un varco spazio temporale verso un Italia rimasta ferma agli anni Cinquanta, con il suo specchio dietro i banconi, i tavolini tondi e le foto di personaggi famosi appese alle pareti. 

Passeggiando più a ovest, verso il Golden Gate, incrociamo invece Fillmore Street. Oggi la via si presenta come un’infilata di bar pretenziosi e negozi di vestiti, ma nel 1955, le porte del Six Gallery, leggendario locale in una vecchia casa vittoriana in legno al 3119, hanno ospitato il reading che ha visto nascere la beat e in cui un giovane poeta di nome Allen Ginsberg ha steso tutti con i versi del suo poema L’urlo (il Saggiatore), quello che comincia con: “Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate nude isteriche, trascinarsi per le strade…”. 

Da Castro a Russian Hill: sulle tracce di Armistead Maupin

Allen Ginsberg, Laurence Ferlinghetti, Jack Kerouac, Gregory Corso, Philip Lamantia: le strade di San Francisco sono percorse dai passi della beat generation, ma quando si parla di rivoluzioni, non si può dimenticare il ruolo fondamentale che la città dai mille colli ebbe nelle lotte di emancipazione omosessuale.

Il quartiere di Castro, incastonato tra Twin Peaks, la collina più alta e ventosa, e la caotica zona di Mission, è oggi un dedalo di bar, negozietti, attività che nei loro nomi giocano con le parole e i doppi sensi. Ma Castro resta e resterà il luogo dove ha trovato riparo e linfa il movimento: una consapevolezza che si respira nella grande piazza d’accesso, battezzata Harvey Milk Plaza in onore del primo consigliere comunale gay, ammazzato a bruciapelo da un altro (ex) consigliere, ferocemente contrario alle sue battaglie per l’uguaglianza. 

Qui svetta un’enorme bandiera (d’altronde siamo negli Stati Uniti) arcobaleno, e gli stessi colori sono ripresi sulle strisce pedonali di Castro Street, sui lampioni e sulle facciate dei negozi. Chi volesse approfondire la letteratura queer troverà una ricca selezione di libri proprio sulla via principale, da Fabulosa Books. Dietro alle ultime uscite, con le loro copertine patinate, sono nascosti i grandi classici della letteratura californiana, come Christopher Isherwood, che però alla fricchettona e gotica San Francisco preferisce il caos metropolitano di Los Angeles, e Armistead Maupin che, al contrario, diviene il cantore più affezionato e amato della città. 

Maupin, I racconti di San Francisco, Rizzoli

Maupin viveva proprio a Castro, ma i suoi Racconti di San Francisco (Rizzoli) sono ambientati in un quartiere diverso, Russian Hill, guarda caso proprio a due passi da North Beach. Una zona residenziale e tranquilla, percorsa su e giù da vecchi e nuovi abitanti, che arrancano lungo le ripide salite con le borse della spesa, da macchinoni con il cambio automatico e turisti che vogliono godersi uno dei tanti punti panoramici che abbracciano la baia.

La città dei San Francisco Tales (che, ricordiamo, sono una lunga serie) è colorata, buffa e romantica, esattamente come i personaggi di Maupin. L’autore, infatti, a partire dagli anni Settanta, riesce a raccontare con largo anticipo rispetto ai suoi contemporanei una quotidianità in cui è facile rispecchiarsi tutt’ora e in cui si intrecciano vicende amorose gay, bisessuali ed etero, senza nascondere questioni di un certo peso specifico (come l’AIDS, un altro tema che Maupin sdogana con schietta semplicità). La San Francisco dei racconti di Maupin è una città scalcagnata, in cui gli affitti sono incredibilmente bassi, molto diversa da quella di oggi, da cui, non a caso, lo scrittore è con rammarico scappato.

Rebecca Solnit: dal Panhandle a Ocean Beach

E quindi chi resta a presidiare le ripide strade che affacciano sulla baia?

Nonostante San Francisco sia oggi una città complessa, una girandola di contraddizioni in cui sembrano aver vinto sogni molto diversi da quelli degli scrittori che ne hanno animato le strade in passato, la scena culturale resta incredibilmente vivace, le presentazioni degli ultimi romanzi sono sempre attese e, come abbiamo detto, al netto di una città in cui il caro vita è aumentato sensibilmente, le librerie non sembrano passarsela così male. È in una di queste, la Green Arcade, attiva da dodici anni e con una proposta editoriale estremamente attenta alla saggistica politica e climatica, che ho incontrato Rebecca Solnit. Affezionata amica della libreria, a cui è rivolto anche un verso di una lirica del suo atlante di San Francisco, Infinite City (“in the Green Arcade bookstore, I am the cat”), Rebecca Solnit è la silenziosa sentinella dei sommovimenti della Bay Area. Consapevole della spinta rivoluzionaria della città e del suo ruolo virtuoso, per esempio nell’attenzione al clima, che fa di San Francisco un motore ideale del Paese, Solnit è altrettanto consapevole delle difficoltà sociali che sta attraversando la città che ama. 

Solnit ha scritto più o meno di qualsiasi argomento: critica letteraria, femminismo, politica, cambiamento climatico, il suo saggio Ricordi della mia inesistenza (Ponte alle Grazie), un’autobiografia femminista in cui a non-esistere è il corpo della donna, può essere un buono spunto per scoprire San Francisco a partire dal luogo dove l’autrice ha vissuto più a lungo: il Panhandle, una sorta di parco / controviale, lungo e stretto, che collega il Lower Haight al Golden Gate Park, polmone verde di dimensioni superiori a Central Park, che ospita musei, giardini botanici e affaccia direttamente sull’oceano in una spiaggia, didascalicamente chiamata Ocean Beach, che è l’accesso cittadino all’infinito. 

Rebecca Solnit, Ponte alle Grazie

La San Francisco di Solnit si sovrappone a quella della Summer of Love: dalle bottegucce di Haight-Ashbury a Outer Sunset, un quartiere battuto dal vento in cui, nelle giornate di sole dell’eterna primavera sanfranciscana, i residenti affollano le brewery e i surfisti la spiaggia.

Solnit, come racconta in Ricordi della mia inesistenza si trasferisce, ancora studentessa universitaria, in un quartiere afroamericano, e se ne va, nel Ventunesimo secolo, da un quartiere diventato bianco e benestante. La San Francisco che innerva le pagine iniziali del libro appare molto simile a quella di Maupin, ancora estranea al cambiamento. Scrive Solnit: “La città sembrava vecchia e sgualcita, c’erano polvere e tesori impigliati nelle sue fessure; e poi è stata levigata e ripulita e certi suoi abitanti sono stati scacciati come se fossero parte della sporcizia. Il negozio di paccottiglia è diventato una pizzeria di fascia alta, la chiesa ricavata nell’immobile commerciale un parrucchiere, la libreria radicale una boutique di occhiali, e un sacco di posti dei sushi bar”. 

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L’anima messicana e quella posh della città con Dave Eggers e Vendela Vida

Restando sulla costa Ovest, quella che affaccia sull’Oceano Pacifico, si può arrivare, attraverso spiagge e parchi al Golden Gate Bridge. E se Outer Sunset conserva in sé l’asprezza di un villaggio di pescatori, con le case semplici e basse, scrostate dalla salsedine e dal vento, basta camminare pochi chilometri per cambiare completamente panorama.

Oltrepassando la lunga spiaggia e un trail boscoso dal nome evocativo di Lands End, si arriva a Sea Cliff, una zona residenziale in cui le vibrazioni dei bucanieri e dei surfisti lasciano spazio a un’agiatezza da telefilm. Ville monofamiliari miliardarie dai profili moderni che ammiccano, con colonnati e patii, al neoclassicismo, bouganville in fiore, stretti marciapiedi perfettamente curati. Un incubo altoborghese dove è ambientato l’ultimo romanzo della scrittrice Vendela Vida, We Run the Tides, inedito in Italia. 

Anche in questo caso, la San Francisco in cui si muovono le tredicenni Eulabee e Maria Fabiola, protagoniste del romanzo, è molto diversa da quella che conosciamo oggi. Le strade di Sea Cliff, che sentono di possedere in ogni angolo, sono quelle dei primi anni Ottanta, misteriose ed eccentriche, ancora illuminate da una sorta di purezza prima del boom delle aziende tech. Due personaggi che attraversano la stessa perdita dell’innocenza subita, qualche decennio dopo, dalla città che abitano, in bilico tra infanzia e adolescenza, in un’età in cui i legami di amicizia sono percorsi da una sottile eco di violenza.

Vendela Vida, We run the tides

Diversissimo, come atmosfere e clima, è invece il più antico nucleo di San Francisco, Mission, la misión, dove, se si è fortunati, si può incappare nel marito di Vendela Vida: Dave Eggers. Per le strade di Mission si respira l’anima messicana della città: l’architettura diventa spiccatamente centroamericana, le case squadrate, le chiese barocche, nei ristoranti si mangiano faijtas. Qui la California rivela tutto il suo cuore ispanico. Mission fa dimenticare i toni pastello, i colori sono vibranti, accesi, rosso, blu, giallo, verde; le vie sono ricoperte di murales tipicamente messicani; l’aria è calda, trattandosi di uno dei pochi punti pianeggianti, protetto dai venti che soffiano dalla baia e dall’oceano; la popolazione è ancora piuttosto multiculturale. 

È nei bar, affollatissimi, sulla Valencia, il centro pulsante del quartiere, che, se fate attenzione, si possono intravedere dei capelli ricci tra il nero e il grigio e un viso franco con la barba appena accennata. Probabilmente siete appena incappati in Dave Eggers, che proprio su questa via ha stabilito la sede della rivista che ha fatto sognare ormai più di un paio di generazioni di aspiranti scrittori, McSweeney’s, e di 826 Valencia, la scuola di scrittura creativa per ragazzi con famiglie a basso reddito.

826 Valencia, fondata da Eggers e Vida, ormai vanta varie sedi, ma quella di Mission, guardata dall’esterno, sembra un negozio di giochi a tema piratesco: un escamotage per svecchiare la scrittura e convincere i più giovani a mettere il naso dentro. 

Dave Eggers Opera struggente di un formidabile genio

Anche Eggers, in diverse interviste, ha dimostrato gli stessi timori di Solnit e Maupin sul futuro della città. Come dargli torto: con Il cerchio (Mondadori) e il suo ultimo romanzo pubblicato negli Stati Uniti da Penguin, The Every, ha portato alle estreme conseguenze il sogno distopico delle big tech. Eppure a San Francisco si può ancora stare bene, tra gli scaffali in legno di una vecchia libreria, passeggiando tra le strade di Castro o fermandosi in una brewery di Outer Sunset, combattendo contro il vento dentro un maglione di lana o guardando verso il mare da Russian Hill. Allora, come scrive Eggers nella sua Opera struggente di un formidabile genio (Feltrinelli): “Il Golden Gate è proprio davanti a noi, sembra minuscolo, leggero, fatto di plastica e filo di ferro. La città, cioè la Città, cioè San Francisco, è ammassata e bianca e grigia a sinistra, la baia è piatta, blu, qua e là appena increspata, punteggiata da piume bianche di barche a vela e motoscafi con la loro striscia candida”.

nota: le immagini che accompagnano l’articolo sono state scattate da Michele Turazzi

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