“Serena e Venus Williams, nel nome del padre” di Giorgia Mecca non è un libro di tennis, ma sulle contraddizioni del tennis, sul suo razzismo silente e fastidioso. Soprattutto, è una storia di rivalità faticosa, opprimente, che si fonda su un rapporto solidale e una premessa indissolubile: il padre – L’approfondimento

Serena e Venus Williams sono state protagoniste, insieme e singolarmente, di una porzione sostanziale della storia del tennis femminile, hanno cambiato la percezione di questo sport e, soprattutto, ne hanno riscritto le parole.

In virtù di quest’ultima prerogativa, scrivere una storia che le riguardi è un’impresa e a portarla a termine è stata Giorgia Mecca in Serena e Venus Williams, nel nome del padre (66thand2nd).

Il libro ripercorre la carriera delle due sorelle del tennis dalle origini, alla fine degli anni Novanta, fino al più recente Australian Open, soffermandosi sui nodi principali e scandendo gli atti come confronti e finali, sempre una sorella contro l’altra, o sempre e solo una delle due a servizio dell’altra. Venus e Serena oggi si portano appresso un’eredità già decisa, anche se nessuna delle due ha smesso di giocare, e non solo perché sono due icone dello sport, ma anche perché senza di loro alcune delle tenniste giovani più di talento non avrebbero trovato rappresentanza.

Giorgia Mecca: Serena e Venus Williams, nel nome del padre U6

Giorgia Mecca racconta il successo, diviso meccanicamente in due opposti, in due lati di medaglia molto spesso d’oro, ma inviso al destino che fa quello che è solito fare: sceglie solo uno dei due fronti, rendendolo quasi cannibale, quasi meschino nei confronti dell’altro. L’autrice ci rimane accanto senza darci la mano, con una voce asciutta che si infila nella memoria, va dritta al punto.

Il racconto, appassionato e franco, evolve come un tumulto: inizia da premesse precise, contestuali e sociali, e si sviluppa a strati, a livelli di percezione sempre più complessi e profondi, rilevando insicurezze, problemi, emozioni. Conosciamo due atlete e la loro furia, la loro ambizione che è fatta della stessa matrice e dello stesso materiale, ma anche la loro differente e estrema fragilità.

La storia inizia con il sogno americano del padre, Richard Williams, che recita a se stesso e a sua moglie Oracene una preghiera di rivalsa, seminata in un terreno di umiliazione e di razzismo subìto e tramandato anche nelle vite delle due sorelle, per cui, in aggiunta, diventa un amplificatore efficiente, uno stimolo alla ricerca della vittoria.

Giorgia Mecca fa evolvere questo sogno all’interno delle linee del tennis, descritto molto spesso come insieme, come ostacolo esterno più che interno, un tennis che guarda, giudica, non tollera e anzi sopprime fino a esplodere, in certi casi. La sensazione che ne deriva per chi legge è di straniamento: ci chiediamo quando è accaduto un certo fatto di razzismo eclatante, come abbiamo fatto a dimenticarlo, quante sofferenze porta con sé una delle storie più di successo dello sport contemporaneo.

Giorgia Mecca stipula un patto a priori con chi legge, chiaro fin dalle prime pagine: questo non è un libro di tennis, è un libro sulle contraddizioni del tennis, sul suo razzismo silente e fastidioso, ma soprattutto è una storia di rivalità faticosa, opprimente, che si fonda su un rapporto solidale e una premessa indissolubile: il padre.

Richard Williams è una figura fondativa, colui che ha permesso alle bambine Venus e Serena di imparare non solo lo sport, ma anche l’intenzione della vittoria, l’afflato dei campioni. Il padre, uomo ambizioso e certo del successo della sua impresa – un successo suo, definito senza mai aggiungere anche –, inizia a costruire la storia in una periferia complicata di Los Angeles: Compton è il luogo dove sono scritte le premesse della carriera scintillante, della rete dei campetti dello spaccio, palco prescelto per arrivare alla fortificazione dell’animo. “Ciò che mi ha portato a Compton è stata la consapevolezza che i campioni arrivano tutti dal ghetto. Ho studiato Muhammad Alì e Malcom X, ho visto da dove arrivano. Come parte del mio piano ho deciso che il ghetto sarebbe stato il posto in cui le mie ragazze sarebbero cresciute, per imparare la mentalità del guerriero e l’abitudine al combattimento. E quanto sarebbe stato più facile giocare di fronte a migliaia di bianchi quando hai imparato a giocare davanti a squadroni di gang armate?”, dice Richard Williams. La regola è chiara, e con il tennis c’entra ancora poco. Ha a che fare con chi abita gli spalti e si muove tra l’erba di Wimbledon, dove re e regine affrontano prima i sudditi e poi la corona, in una inversione bizzarra ma legittimata come abitudine.

Giorgia Mecca ci racconta la sua esperienza diretta di Compton: le sorelle Williams sono plasmate a diventare quello che a in quella periferia non si è mai visto e a cui non si darà mai credito. Il prima è descritto con ogni dettaglio della mancanza: di strutture, di spazio, di prospettiva. Mecca ci accompagna su quei campetti di periferia, cerca un dialogo con chi abita il quartiere, ma ci svela un segreto: le sorelle non sono nessuno in quel luogo. Sono roboanti fuori, ma niente nel posto in cui sono cresciute. Nel progetto di Richard, Compton è una pedina, un modo come un altro per gestire lo scambio: fra le aspettative e il presente, fra il prima e il dopo, fra la mancanza che allena l’ambizione e la comodità che pettina l’ego.

“Il professionismo ad altissimi livelli le mette davanti a un dato di fatto incontrovertibile: le vittorie di una sono le sconfitte dell’altra. È questa la loro tragedia, il motivo per cui quel giorno Richard decide di tenersi alla larga dal campo. Poteva pensarci prima, le leggi del tennis non sono state scritte quel giorno: perché una sorella sopravviva, è necessario che l’altra soccomba”: all’inizio delle loro carriere non c’è mai l’una senza l’altra ma poi, come un tumulto nel tumulto, succede qualcosa che cambia il corso della storia e agisce nel nome, nella sapienza e per mano del padre.

La storia di Venus e Serena può essere scritta insieme, come un binario di una linea che viaggia a forte velocità, oppure in modo separato, come due rotaie che non si incontreranno mai, nemmeno all’arrivo previsto.

In entrambi i casi si tratta di un binomio, due nomi riflettenti, due persone in stretta connessione e correlazione attraverso delle instabili traverse.

L’AUTRICE – Elena Marinelli è autrice del romanzo Il terzo incomodo (Baldini+Castoldi, 2015) e di Steffi Graf. Passione e perfezione (66thand2nd, 2020). Collabora con ilLibraio.it L’Ultimo Uomo, ha ideato Volée – Un podcast sul tennis.

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