Stefano Bartezzaghi torna in libreria con un nuovo saggio, “Mettere al mondo il mondo. Tutto quanto facciamo per essere detti creativi e chi ce lo fa fare”, in cui immagina una piramide di discorsi che dalla base della creatività mediale passa all’ambito tecnologico e produttivo, per poi giungere alla sfera conoscitiva e dell’espressione artistica – ilLibraio.it ha intervistato l’autore, docente e studioso dei giochi di parole per parlare del rapporto tra novità e banalità, tra bugia e genio, tra arte e divino, tra gioco e vincolo, passando da Fellini a Gadda e da Steve Jobs a Elon Musk, con l’obiettivo di inquadrare meglio questo concetto così fluido e sfaccettato…

Essere creativo. È questo l’imperativo categorico a cui pare non potersi sottrarre nell’epoca della “creator economy”. E non importa quale sia la professione o l’attività umana a cui ci dedichiamo. La creatività è dei designer e dei cantautori, degli stilisti e dei programmatori di computer, dei pubblicitari e dei bricoleur, dei panettieri e dei calciatori, dei bambini e dei tecnologi, persino degli impostori che fingono interviste mai realizzate.

La creatività è un vero e proprio feticcio verbale e la narrazione che ne è scaturita è una mitologia contemporanea, nell’accezione cara al linguista e critico Roland Barthes.

Sebbene una sua definizione esaustiva risulti impossibile, sfuggente, per alcuni persino insensata, ciò non impedisce di indagarla e di coglierne sfumature e contraddizioni.

È quello che Stefano Bartezzaghi realizza in Mettere al mondo il mondo. Tutto quanto facciamo per essere detti creativi e chi ce lo fa fare (Bompiani, pagg. 240) in cui aggiunge un tassello ai saggi precedenti nella sua ricerca fondativa di una Semiotica della creatività, disciplina che insegna all’Università IULM.

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Prendendo in prestito il titolo di un’opera dell’artista Alighiero Boetti, l’autore, fine enigmista e studioso dei giochi di parole, immagina una piramide di discorsi che dalla base della creatività mediale (moda, pubblicità, giornalismo, fotografia, fumetto, televisione) con la sua funzione mitologica, passa all’ambito tecnologico e produttivo afferenti l’ingegneria, la scienza delle telecomunicazioni, il design thinking per poi giungere alla sfera conoscitiva, quella delle scienze cognitive e dell’intelligenza artificiale prima di toccare il vertice attraverso l’espressione artistica con la sua funzione simbolica e la sua emulazione del divino, il Creatore per antonomasia.

Parise e Gadda, Fellini, Queneau e Greimas, ma anche Jobs e Musk. Menti diversissime eppure espressioni di poliedriche attitudini creative. Persino Tommaso Debenedetti, a cui Antonio Iovane nel suo recente podcast per GEDI Visual, Impostori, dedica un’intera puntata, può essere definito tale.

Tommaso Debenedetti  per anni pubblica infatti su diversi quotidiani italiani le interviste ai più grandi scrittori mondiali, da John Le Carré a John Grisham, passando per José Saramago e Abraham Yehoshua. Persino Philip Roth, a cui fa definire Barack Obama “una grandissima delusione”. Finché lo stesso Roth, a una giornalista italiana, Paola Zanuttini del Venerdì, che gli chiede conto di quel giudizio sul presidente Usa, risponde: “Ma io non ho mai rilasciato quell’intervista”. Era tutto una finzione. Paul Auster individuerà un tratto di genialità nella capacità di Debenedetti di beffare testate e opinione pubblica senza venire smascherato.

Questa intervista a Stefano Bartezzaghi per ilLibraio.it parte proprio da lui. E non è stata inventata.

Mettere al mondo il mondo. Tutto quanto facciamo per essere detti creativi e chi ce lo fa fare

Buongiorno Bartezzaghi. Da dove vuole cominciare?
“Non le chiedo di dirmi la trama del mio libro. Ho scoperto di recente essere una consuetudine di Philip Roth che in questo modo cercava di testare se i suoi intervistatori lo avessero effettivamente letto”.

Sarebbe una prova interessante. Tra l’altro veniamo a conoscere questa pratica un po’ sadica di Roth grazie a Paola Zanuttini, la cui intervista allo scrittore, nel 2010, fece crollare il castello di carte di quello che è stato definito il falsario delle interviste, Tommaso Debenedetti.
“Un personaggio incredibile, che non si è limitato a inventare le interviste, ma persino gli account Twitter di personalità come Umberto Eco o della ministra della Cultura greca a cui fece annunciare la morte (falsa) del regista greco francese Costa Gavras. Antonio Iovane nel suo recente podcast Impostori ne ricostruisce la storia”.

Ecco, una figura come quella di Debenedetti con la sua produzione di fake news, come si pone rispetto al tema della creatività?
“Si pone benissimo, perché la creatività ha anche un sottofondo truffaldino. Noi italiani amiamo sentirci dire che siamo creativi, quell’arte di arrangiarsi incarnata dal detto: ‘Fatta la legge, trovato l’inganno’. Questo è esattamente quello che succede: la legge è il contraint, è la regola del gioco e il creativo è colui che, all’interno della regola, riesce a fare la cosa più vantaggiosa, più estrosa, più meravigliosa, magari forzandola anche. Tuttavia, finché non lo scoprono, nessuno sa di questa forzatura”.

Il suo ultimo saggio, Mettere al mondo il mondo, si apre con una domanda che rivolgo direttamente a lei: chi glielo fa fare di indagare la creatività?
“Ho sempre avuto dei mandanti. Mi sono affacciato al mondo del giornalismo e della cultura parlando di giochi e giochi di parole e mi hanno sempre chiesto cosa pensassi della creatività. All’inizio davo risposte molto generiche attingendo alla sfera linguistica citando Noam Chomsky o alla semiotica riprendendo Umberto Eco, con cui ho studiato. Poi c’è stato lo stimolo del Festival della Mente di Sarzana: da una prima conferenza è scaturito un primo libro e poi uno studio. Adesso insegno all’Università IULM Semiotica della creatività”.

Rispetto ai libri precedenti, questo testo come si inserisce nella sua ricerca?
“Sono passato da un pamphlet polemico per dire che ‘creatività’ è una parola che usiamo con troppa disinvoltura, al secondo che è uno studio un po’ più allargato fino a questo terzo saggio in cui ho optato per una trattazione meglio fondata. Non c’è una meta stabilita: volevo costruire un discorso verificabile sulla creatività. Spero di averlo fatto”.

Al vertice della piramide della creatività lei pone l’artista e il suo rapporto con il divino, distinto dalle persone comuni. In cosa consiste questa alterità?
“L’essere umano si è sempre chiesto da dove venisse la propria capacità di fare qualcosa che prima non c’era, e che rapporto avesse con le cosmogonie. Sono scaturite diverse credenze e religioni sul modo in cui l’universo è stato creato e a questa domanda la risposta è metafisica. Nel caso del genio, dell’artista e del poeta vate ispirato, le persone comuni vedono un senso paragonabile, almeno sul piano simbolico, alla creazione divina”.

Ma allora potremmo definire Picasso un creativo?
“No, casomai lo definiremmo un vero e proprio creatore: nel suo caso la creatività è messa a disposizione di un progetto più ampio e lui si sente divino quando dà vita a un’opera”.

La creatività ha a che fare con qualcosa di prestigioso e con la novità. La novità oggi pare avere indiscriminatamente un’accezione positiva. Ma è davvero così?
“Viviamo in una società in cui vige una costante valorizzazione positiva del nuovo. Questo dà prestigio al nuovo e a chi sa produrlo, ma non è una legge di natura, anche se tendiamo a pensarla così. Roland Barthes ci ha insegnato che la mitologia contemporanea, e i mass media in particolare, ci hanno fatto sembrare apposta naturale qualcosa che invece è culturale. In epoche passate accadeva il contrario: del nuovo si diffidava. Oggi diamo credito a certi ambiti, come la moda, che sono usciti fuori dalla loro stagionalità”.

E lei, tra il vecchio e il nuovo, per cosa propende?
“La mia posizione, e quella dello studioso in generale, credo debba essere neutra: non è meglio il vecchio oppure il nuovo in maniera assiologica. Dobbiamo indagarne sempre il funzionamento. E in ogni caso, come si dice in quel film e brano, ‘New things get old’ (Take this Waltz del 2011, ndr): anche le cose nuove invecchiano, e anche questo è un esempio della carburazione del motore dell’industria culturale”.

In questo libro riprende quanto introdotto in quello precedente, Banalità (Bompiani, 2019). Qual è il rapporto tra creatività e banalità? E perché alla fine si auto-alimentano?
“La dialettica tra la banalità e la creatività è molto interessante. Perché vogliamo essere creativi? Per distinguerci e per essere riconosciuti dagli altri come qualcuno di non comune. Non si può dire ‘Io sono creativo’. Devono essere gli altri a definirci. Il problema è che se tutti ci definiscono ‘non comuni’, questa definizione diventa ordinaria e noi diventiamo banali”.

Può farci un esempio?
“Ecco il massimo della banalità: il signor Brugola si è inventato qualcosa che prima non c’era ed è stato così geniale che quell’oggetto si è diffuso in tutto il mondo e ha preso il suo nome. Primo Levi ha scritto che il massimo della notorietà sta nel cessare di essere un individuo e diventare un luogo comune, cioè una banalità”.

Ed è qualcosa di negativo?
“Guardiamo all’origine della parola: significa ‘ciò che è conosciuto da tutto il ban’, che nel Medioevo francese era il villaggio. Noi vogliamo essere creativi per essere conosciuti da tutti, dal villaggio che ormai è diventato globale. Ennio Flaiano lo stigmatizza in Un marziano a Roma, dove persino il marziano diventa una banalità da spernacchiata”.

Federico Fellini dichiarava di aver sempre voluto diventare un aggettivo. Lei dedica un capitolo al grande regista e in particolare a 8 ½.
“In un periodo in cui stavo facendo un’analisi sulla creatività, mi hanno chiesto un approfondimento su 8  ½. E nel rivederlo mi sono accorto di tutte le sue analogie: il sogno, l’infanzia, il volo, l’interruzione dall’andamento prestabilito della vita. Sono tutte forme espressive che rimandano a vari livelli al tema della creatività, come la migliore arte sa fare”.

Eco sosteneva: “Di ciò di cui non si può teorizzare si deve narrare”. E la creatività artistica è un po’ questo.
“Infatti. E la prima sequenza di 8 ½ con il sogno di Matroianni/Anselmi che esce dall’auto imbottigliata nel traffico e inizia a volare ne è una perfetta sintesi. Credo che questa pellicola, che risale al 1963, abbia modellato la nostra idea di creatività, quando ancora il suo era un concetto fluido”.

Una fluidità che permane ancora adesso, se pensiamo che lo scorso luglio Sudafrica e Australia hanno riconosciuto il brevetto elaborato da Dabus, un tipo particolare di intelligenza artificiale in grado di creare nuove invenzioni. La chiamano ‘macchina della creatività’.
“È vero, questo concetto non ha una definizione vera e propria. Secondo la distinzione di Leopardi, creatività è una parola (dunque per sua natura polisemica) e non un termine, che avrebbe invece con un perimetro circoscritto. Credo che quella dello sviluppatore di Dabus (Stephen Thaler, ndr) sia stata una provocazione: alla fine cosa può esserci di più creativo di saper costruire una macchina creativa?”.

Ma la creatività è solo una prerogativa umana?
“Stando a quanto scritto sino a oggi, se vogliamo dare un senso alla parola creatività, deve essere proprio ciò che le macchine non possono fare. E la differenza sta in ciò che potremmo identificare come coscienza, inconscio, mandato divino. Un mio amico direbbe: il linguaggio”.

Però anche le macchine hanno un loro linguaggio, sebbene codificato dall’uomo.
“Ma, nel momento in cui una macchina diventa creativa, non è più una macchina. Diventa un Frankenstein, un Golem. Primo Levi poco prima di morire, nel 1984, definisce il computer un Golem. È un terreno in cui c’è il rischio di cadere nella mitologia delle convenzioni, e dovremmo evitarlo”.

E i social network, alla base di quella che è stata definita la creator economy, come si inseriscono in questo ambito?
“Be’, sono uno strumento per la creatività diffusa, proprio perché ci danno la possibilità di auto-presentarci agli altri, attraverso il nostro profilo migliore. Ci stimolano ad avere un comportamento originale, che ci distingua, a essere i primi a dire qualcosa e i primi a stufarcene, i primi fan e i primi snob di ciò che abbiamo contribuito ad alimentare. Credo che i social network non siano però tanto la fonte, quanto un acceleratore, di questa tendenza”.

La creatività in ambito produttivo ed economico è incarnata da figure come Steve Jobs, Jeff Bezos, Elon Musk, ritenuti veri e propri miti contemporanei.
“Barack Obama nel 2013 annunciò che il calcolo del Pil federale da allora in poi avrebbe tenuto conto della ‘creatività’. A livello macro-economico è innegabile che la ricchezza americana una volta fosse determinata da stabilimenti, cantieri, elementi solidi, mentre ora l’industria creativa e immateriale la fa da padrone”.

Una svolta epocale.
“Si è passati dalle fabbriche ai brevetti con tutto ciò che questo comporta a livello sociale. I marchi oggi sono considerati dei veri e propri soggetti, e alcuni uomini emergono non solo capi d’azienda, ma come leader e persino creatori”.

I creatori per antonomasia sono diventati loro, più degli artisti?
“Steve Jobs è stato inarrivabile con le sue presentazioni, dei veri e propri spettacoli. Musk e Bezos, con la loro campagna di conquista dello spazio, stanno cercando di riappropriarsi della dimensione del corpo, proprio loro, nati come creatori immateriali. L’esempio dell’artista è arrivato a questi ambiti attraverso l’esperienza della moda e degli stilisti, che ne rappresentano il trait d’union”.

Un trait d’union nel discorso sulla creatività è anche il gioco, a lei tanto caro.
“Il gioco dà un modello al rapporto tra le regole e la libertà individuale. La creatività viene spesso vista come un modo di trovare la soluzione più brillante in un ambiente limitato e vincolato. Consideriamo gli scacchi: ci sono delle regole assolute, ma a parità di situazione avremo mosse più o meno efficaci fino a quelle definite creative, che non erano mai state tentate”.

Lo stesso sport è un gioco.
“Esatto, e quando ammiriamo Federer nella sua capacità di trovare un angolo inedito, come ha scritto David Foster Wallace, ne cogliamo l’originalità all’interno di un ambito più circoscritto, come quello delle regole del tennis e della stessa trigonometria”.

Di tutti i creativi che cita nel suo libro, chi incarna al meglio la sua idea di creatività?
“Le rispondo Bruno Munari, in quanto ha riflettuto sulla parola stessa ‘creatività’ e ha dato degli esempi utili, ripetibili e ispiranti. E poi colui da cui ho tratto il titolo di questo libro, Alighiero Boetti. ‘Mettere al mondo il mondo’ è una frase poetica e non voglio inchiodarla a un’unica definizione, ma esprime perfettamente quello che accade quando vogliamo a tutti i costi essere creativi”.

Uno sforzo vano?
“Il punto è che, alla fine, quello che facciamo è mettere al mondo qualcosa che al mondo c’è già. L’atto creativo risiede allora nel dargli una configurazione nuova, nel vederlo da un altro punto di vista. Boetti è un artista che grazie al suo lavoro di sperimentazione ci sprona a guardare le cose da angolazioni differenti, stimolando nuove visioni. Per me è questo il vero creativo”.

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