Ad Arbasino (Voghera, 22 gennaio 1930 – Milano, 22 marzo 2020) è dedicato “Stile Alberto” di Michele Masneri e Antongiulio Panizzi. Tra salotti romani, cartoline e aforismi taglienti, emerge il profilo dell’intellettuale che ha fatto dello stile una forma di sovversione e di Voghera un osservatorio sul mondo. Ma il documentario svela anche l’inquietudine dell’uomo dietro la maschera del brillante mondano…

Una Cassandra in giacca e cravatta. O, se volete, l’antidoto a certi intellettuali (brillante promesse all’inizio, soliti stronzi in mezzo e venerati maestri alla fine, come da immortale aforisma).

Forse viaggiava tanto, in giro per il mondo, per scrollarsi di dosso la patina di provinciale, essendo lui di Voghera, terra dell’iconica casalinga (che ha un retroterra che pochi conoscono e vedremo più avanti).

Forse ha insegnato, senza volerlo fare, che la frivolezza può essere più rivoluzionaria di un manifesto politico, che un aforisma ben congegnato, o una parola, sono più efficaci (o fanno più danni) di un trattato di filosofia, che l’ironia non è evasione, ma una forma di resistenza superiore e che per essere davvero sovversivi bisogna apparire impeccabili.

Documentario Stile Alberto

Forse, forse, forse. Sì, perché quando si parla di Alberto Arbasino (d’ora in poi AA, come da cartiglio sul citofono della sua casa di Roma in via Gianturco 4) – morto nel 2020 all’età di 90 anni dopo una lunga malattia – bisogna andare cauti con le definizioni. Perché, semplicemente, AA era (e resta) un mistero come ammette, dopo un’ora di documentario, il suo grande ammiratore Michele Masneri, giornalista del Foglio, scrittore e sublime cronista di costume, che nel 2021 gli ha dedicato un libro, Stile Alberto (Quodlibet) e ora, da quel libro, è stato tratto appunto un documentario (il titolo è uguale) sceneggiato e diretto dallo stesso Masneri con Antongiulio Panizzi, prodotto da Mad Entertainment con Rai Documentari e Luca Guadagnino e presentato in anteprima alla Festa del cinema di Roma.

fratelli d'italia arbasino

È un’altra Italia quella che Masneri, con la commovente fede arbasiniana che lo contraddistingue e il rigore del giornalista che sa affondare il bisturi nei punti giusti, racconta. Un’Italia di case sontuose, di salotti (che non si fanno quasi più, se non a Roma), di feste dove trovi la nobile decaduta e il cardinale, il giornalista e lo showman, l’intellettuale e lo squattrinato, il politico e il questuante. Un’Italia di cartoline, fil rouge di tutta la narrazione, che portano la firma di Arbasino, spedite da luoghi vicini e lontani: chi ne riceveva di più era il suo preferito. E Giovanni Agosti, docente di Storia dell’arte moderna, tiene le sue, in gran quantità, chiuse in una scatola come fossero delle reliquie mentre mostra a Masneri una copia di Fratelli d’Italia nel punto più buio e stretto di un corridoio.

documentario Arbasino

Un’immagine dal documentario, dall’Archivio Umberto Pizzi

Un’Italia di librerie leggendarie. Un’Italia dove si diceva colazione per indicare il pranzo (e il pranzo era la cena). Un’Italia dove gli intellettuali se le cantavano pure tra di loro. Scopriamo, per esempio, che AA non amava Luchino Visconti, che gli sembrava un gran maleducato, che considerava Fellini un gran furbone (“Quello ti fa perdere due giorni per andare a fare dei pranzetti a Fregene e poi ti ruba le idee”), che tacciava di provincialismo anche Pasolini e sfotteva Alberto Moravia che firmava appelli su qualsiasi cosa come scriveva in un delizioso pezzo degli anni Sessanta: “firme. Due, tre, dieci al giorno, su tutti gli argomenti e tutti i paesi: (…) le biennali, triennali, e quadriennali, i festival, i convegni, le iniziative, le manifestazioni, le partecipazioni, i coinvolgimenti, i dibattiti, e tutti i problemi dei giovani. Moravia ha sempre già firmato“.

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documentario Arbasino

Un’immagine dal documentario, dall’Archivio Umberto Pizzi

Perché AA è stato molte cose: scrittore, saggista, romanziere, diplomatico mancato, viaggiatore. E pure politico, indipendente nel Pri dove colleziona un record di presenze, arriva prestissimo la mattina alla Camera e rimane male dei colleghi che arrivavano ore dopo. Prima viene assegnato alla “Commissione Affari interni e di culto” e poi relegato a fare le fotocopie insieme alla collega di disavventura Natalia Ginzburg, come racconta nel documentario la nipote Silvia Arbasino, figlia del fratello Mario, che apre case e archivi con Masneri, e noi con lui, che ci si tuffa felice.

la bella di lodi arbasino

Troppo elegante (e benestante) per diventare mainstream, troppo fuori dal coro per entrare in accademia, troppo pop per entrare nel circolo degli intellettuali seri e impegnati, lui che amava le canzonette e ne scrisse pure una per Laura Betti, Seguendo la flotta, che nel doc, vediamo cantata da Paolo Poli: “Ossigenarsi a Taranto / è stato il primo errore / l’ho fatto per amore / di un incrociatore”.

È un viaggio nei luoghi, nelle amicizie, nei ricordi con lo scrittore ripreso dapprima giovane e molto bello con i baffi e poi senza. E, poi, colto nell’avanzare dell’età, parallela a un dolore nascosto ma profondo, che lo rende sempre più cupo, quasi fuori luogo lui che nei salotti era invitato, corteggiato e riverito.

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Si va a casa di Adriana Sartogo, che fu anche amica di Andy Warhol, che sul terrazzo che s’affaccia sull’Altare della Patria ricorda la straordinaria generosità di AA mostrando le due piccole sculture antiche di cui le fece dono. Si va a sentire Giorgio Montefoschi, scrittore quasi ottantenne e prodigo di aneddoti e risate quando, alla fine, legge alcuni passi di Fratelli d’Italia (anno 1963), il romanzo cult di AA, una radiografia dell’ipocrisia nazionale condotta con il bisturi del gossip, negli anni in cui, mentre gli intellettuali discutevano di impegno civile, lui svelava che l’imperatore era nudo, e pure malvestito. Si interroga Masolino D’Amico, 83 anni, figlio della celebre Suso Cecchi d’Amico e del musicologo Fedele d’Amico.

le piccole vacanze arbasino

Si varca la soglia di villa “La Furibonda” sull’Appia Antica dove è passata tutta la Roma che conta, e anche quella che non conta o credeva di contare qualcosa, sontuosa residenza della contessa Marisela Federici, 75 anni, al secolo Rivas y Cardona, venezuelana, nipote di Carlos Delgado Chalbaud, presidente del Venezuela fatto assassinare dal dittatore Perez Jimenes.

Regina dei salotti e dei funerali vip della nobiltà nera romana, la contessa racconta a Masneri come assemblava gli invitati dei suoi salotti, nei quali AA era presenza fissa e nei quali non doveva mai mancare un cardinale di Santa Romana Chiesa perché, chiosa, “il Vaticano ti dà un tono“, e ricorda di quella volta in cui invitò per Natale Emmanuel Milingo, il vescovo esorcista scomunicato, davanti al quale tutti gli avventori (compresa donna Assunta Almirante) si misero in fila per farsi benedire (e, giacché c’erano, farsi dire pure i malanni) mentre lui tracannava alcolici alla grande. Una scena che più arbasiniana non si può. E, secondo la contessa Federici, ça va sans dire, AA in quelle situazioni prendeva spunti notevoli.

Poi si sale all’ultimo piano del cinquecentesco Palazzo Caetani dove vive Alvar Gonzalez-Palacios, 89 anni, italiano di origini cubane, uno dei massimi storici delle arti decorative, che ammette che a Roma tutti ti considerano un provinciale se non sei nato lì.

Infine, si va a Voghera, la terra natia, dove vivono i familiari del Nostro e dove ha voluto essere sepolto. Alla farmacia di famiglia ricca di decorazioni liberty, un’attività che permise ad AA di vivere da benestante girando il mondo.

Michele Masneri Stile Alberto

Si racconta del tormentone, quasi un cruccio, per il mancato riconoscimento della “casalinga di Voghera” primigenia, cioè la vogherese Carolina Invernizio, scrittrice considerata all’epoca di basso profilo e definita “l’onesta gallina della letteratura italiana” nientemeno che da Antonio Gramsci perché scriveva romanzetti tra il rosa e il dark tipo Il bacio di una morta mentre oggi sarebbe la regina delle classifiche, andrebbe da Fazio e virale su TikTok (e chissà cosa direbbe AA). Alla fine, comunque, si scopre che a Voghera una strada intitolata all’Invernizio, antesignana dell’italica casalinga, c’è.

Si evoca Stefano Bollina, il compagno che gli è stato vicino molto tempo ed è morto prima di lui, che in realtà si chiamava Romolo e nei salotti romani era tutto un pissi pissi su cosa facesse: l’impiegato all’Inps, l’elettricista perché nel suo ambiente sociale d’adozione, l’aristocrazia, l’identità sessuale era accettata, ma non certo tema di conversazione, né di rivendicazioni.

Arbasino si nega, si moltiplica, sfugge. È l’Houdini della cultura: più lo si vuole immobilizzare, più sguscia via. Il doc diventa così una metafora perfetta del suo protagonista: un elegante fallimento più di quanto non dica.

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Fotografia header: Alberto Arbasino GettyEditorial 25-10-2025

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