“Fatico a non provare empatia per le persone, però credo che quando ci assumiamo il ruolo di raccontare per conto di qualcun altro la sua storia, avere rispetto di quella storia significa due cose: mettere la giusta distanza e saper stare un passo indietro”. La curiosità impellente di conoscere gli altri, e di farlo attraverso le domande. Da qui è partito Matteo Caccia, autore (e attore) a tutto tondo. Dopo l’esperienza in teatro, in radio e nel mondo dei podcast, è in libreria con “Voci che sono la mia. Come le storie ci cambiano la vita”. A illLibraio.it spiega: “Ogni mezzo, ogni strumento, ogni luogo di fruizione ha delle caratteristiche peculiari, e credo che qualsiasi storia possa essere raccontata in ognuno di questi contesti, ma non allo stesso modo: ogni mezzo ha un linguaggio specifico” – L’intervista

La curiosità impellente di conoscere gli altri, e di farlo attraverso domande. È da qui che è partito Matteo Caccia, artista della parola e della voce a tutto tondo, con esperienze teatrali, drammaturgiche e autoriali in diversi ambiti, e approdato di recente al mondo del podcast.

Nato a Novara nel 1975, dopo il diploma all’Accademia dei Filodrammatici di Milano, ha lavorato come attore in diverse produzioni, e parallelamente ha scoperto la radio: è conduttore per Radio2 e Radio Popolare, scrive sceneggiati di successo, come Amnesia, e nel 2018 pubblica con Audible La piena. Il meccanico dei Narcos, un podcast che racconta la vita di Gianfranco Franciosi, poliziotto infiltrato in un’organizzazione che traffica cocaina.

Ne ha fatta, di strada, da quando da bambino veniva rimproverato dalla madre a suon di “questo non si chiede” agli sconosciuti…

Ora Caccia è in libreria con Voci che sono la mia – Come le storie ci cambiano la vita, un saggio narrativo, edito da Il Saggiatore, che, mentre racconta le storie di alcune persone speciali, funge da specchio di una carriera in continua evoluzione, proprio come l’autore.

In occasione dell’uscita, abbiamo chiacchierato con Caccia circa la natura delle storie, e dei vari mezzi per raccontarle.

matteo caccia voci che non sono la mia

Cos’è la scrittura di un podcast, e come cambia l’approccio alla scrittura dal copione al libro?
“Il podcast per me è una scrittura testuale solo nell’ultima fase: nel mio caso la scrittura parte sempre dalla scelta della voce. Non la mia, che lo racconto, ma delle persone che scelgo di intervistare. Queste testimonianze vanno poi ascoltate, scelte, selezionate e montate all’interno del podcast. A quel punto ci costruisco intorno una sorta di tessuto narrativo che tiene insieme tutto quello che il protagonista mi ha raccontato, quindi la scrittura della mia parte è a servizio del protagonista e di chi ascolta. Per quanto riguarda la scrittura di un libro, invece, devo fare i conti con una banalità: a differenza di ciò che succede con i podcast, chi fruisce le storie ha davanti un testo. Per questo motivo la scrittura non può prescindere dal ritmo della lettura, che deve aiutare il lettore a non perdersi”.

Teatro, radio, libri, podcast: come sceglie il mezzo giusto per raccontare le storie?
“Ogni mezzo, ogni strumento, ogni luogo di fruizione ha delle caratteristiche peculiari, e credo che qualsiasi storia possa essere raccontata in ognuno di questi contesti, ma non allo stesso modo: ogni mezzo ha un linguaggio specifico. Faccio un esempio: mi è capitato spesso di rendere dal vivo alcuni podcast che ho realizzato (La piena, Il mondo addosso). Per me si tratta quasi di un prestito, non è una vera fruizione teatrale, – non mi sarebbe stato possibile far salire sul palco, con me, minimo sette o otto attori – ma piuttosto è una trasposizione dell’ascolto di un podcast sulla scena. La radio, dal canto suo è un mezzo che viene ascoltato perlopiù in auto, di solito alla stessa ora, e scandisce i ritmi di lavoro e della giornata: in questo caso il linguaggio deve accompagnare chi ascolta, e aiutarlo a trascorrere quel tempo nel miglior modo possibile. E se per caso un ascoltatore abitudinario smette di ascoltarti per un po’ – vuoi per un giorno, vuoi per un mese, vuoi per un anno – quando ti ritroverà dovrebbe sentirsi confortato da quella voce e quelle parole amiche, e sentirsi a casa. Il podcast, infine, ha la fortuna che chi ti ascolta ti viene a cercare, e quindi è predisposto all’ascolto. Perciò devi catturare il suo interesse, altrimenti l’ascoltatore passa ad altro”.

E il teatro?
“Il teatro è una sfida incredibile. Le persone che vogliono assistere a uno spettacolo magari hanno trascorso una giornata pesante, sono state bombardate da richieste, mail, messaggi, hanno avuto problemi con i bambini, o con i genitori, ma hanno la forza di mettere via tutto questo e raggiungere un teatro, sedersi in poltrona e darti fiducia mentre guardano il tuo spettacolo.
Si deve essere estremamente rispettosi del loro tempo, perché a differenza della radio, del libro o del podcast, non possono cambiare frequenza, chiudere le pagine o gettare le cuffiette”.

Nel libro mi ha colpita la riflessione sull’empatia. Scrive, infatti: “La chiave per ottenere i migliori racconti da chi abbiamo davanti a noi non è stargli così vicino da confondere le nostre emozioni con le sue, le sue stesse sensazioni, o addirittura le nostre due identità. Trovo che il grande segreto per ottenere le migliori storie da chi si ha davanti sia quello di mantenere la giusta distanza, per rispetto e per coerenza, considerato che noi non abbiamo vissuto quell’esperienza ma la stiamo solo raccontando”. Com’è arrivato a questo pensiero?
“Quando dico mantenere la distanza, per me non significa creare una barriera tra chi racconta e chi ascolta, ma vuol dire avere rispetto di quella storia senza per forza mostrarsi comprensivi, o in grado di mettersi nei panni degli altri. Fatico a non provare empatia per le persone, però credo che quando noi ci assumiamo il ruolo di raccontare per conto di qualcun altro la sua storia, avere rispetto di quella storia significa due cose: mettere la giusta distanza e saper stare un passo indietro. Il capitolo da cui è tratto questo estratto si intitola La giusta distanza, e ha a che fare proprio con questo: far sentire la tua vicinanza alla persona che intervisti, ma poi fare un passo indietro, non voler essere a tutti i costi il protagonista di quella storia. Non coprire l’intervistato con le tue parole o la tua presenza. E questo l’ho capito quando mi sono trovato, forse per la prima volta, veramente in difficoltà nel raccogliere una di queste storie”.

Vuole raccontare quest’esperienza?
“Era la prima storia d’amore di un ragazzo di 16 anni, che dovevo raccogliere per un programma radiofonico che si chiamava Una vita. Ero andato lì con le mie domande, aspettandomi di entrare subito in confidenza. Gli avrei risposto: ‘Capisco bene, è successo anche a me’. Invece mi sono reso conto di avere di fronte una storia completamente diversa dalla mia: il ragazzo si era innamorato di un altro ragazzo, ma aveva problemi a causa della sua famiglia. Essere ‘l’amicone’ non può funzionare, io avevo 35 anni, lui 16, e un’esperienza che non conoscevo. Per sbloccarlo, ho provato nel mio piccolo a raccontargli la mia esperienza personale. Così facendo, lui mi ha conosciuto un po’ meglio, e ha capito di cosa avevo bisogno”.

Come si può aiutare un intervistato a raccontarsi?
“Mi sono accorto che, nel momento in cui mi confronto con una persona che dovrò intervistare, è sempre meglio non chiedere di pensieri o emozioni, ma di fatti concreti, avvenimenti, episodi. Le azioni creano movimento, ed è il movimento a rendere interessanti le storie, perché avvicina le persone, e le intrattiene”.

Voci che sono la mia raccoglie tante storie emozionanti. Ce n’è una alla quale è particolarmente legato?
“C’è una storia che mi emoziona anche solo nel titolo, perché è arrivata a me già chiamandosi Vivi. Un signore di sessant’anni, sulla tomba del padre, gli chiede se per caso possa trovare un modo di comunicargli cosa ci sia dopo la morte. Lo fa per scherzo, non è credente, come non lo era suo padre. Giorni dopo, riceve una busta da un suo parente che contiene una copia de Il Mattino di Napoli, con due notizie cerchiate. La prima è la notizia dell’affondamento di un sommergibile durante la Seconda guerra mondiale; la seconda, il ritrovamento di una bottiglia di vetro contenente un messaggio, su una spiaggia della Sicilia. Lascio il resto della storia alla lettura, perché per me il modo in cui questi avvenimenti si collegano alla vita del signore di sessant’anni mi dice qualcosa di fondamentale sulla narrazione: il vero senso del raccontare storie è tenere in vita. Non c’è niente di più vivificante che raccontare o ascoltare una storia di vita, pezzi dell’esistenza che tornano a essere vivi”.

Ha qualche progetto nel cassetto che ancora non ha realizzato, o una storia di cui ancora non ha scritto, ma che le ronza in testa?
“Mi piacerebbe riuscire a lavorare con persone che hanno voglia di utilizzare la narrazione per sviluppare la consapevolezza del sé, magari in un workshop o un ritiro. La storia che invece mi ronza in testa da tempo, è quella di Federico Aldrovandi. Negli anni l’ho sempre incrociata, ho conosciuto Patrizia Moretti, la madre, e seguito il suo blog. Non credo, però, che riuscirò a raccontarla”.

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