La teoria dell’iceberg di Hemingway è uno dei precetti di scrittura più popolari: si tratta di un principio di omissione secondo il quale, quando si scrive, non è necessario dire tutto, anzi: bisognerebbe lasciare che il lettore intuisca e percepisca anche quello che non si trova sulla pagina. È proprio da questo “non detto” che nasce il fascino di una narrazione…

Conoscete la “teoria dell’iceberg” di Ernest Hemingway? È un precetto di scrittura attribuito all’autore americano e divenuto molto popolare, finendo per essere annoverato tra le regole imprescindibili da seguire per chi vuole scrivere una storia.

Ma di cosa si tratta nello specifico?

Partiamo dall’immagine dell’iceberg: come è noto a molti, gli iceberg sono grandi blocchi di ghiaccio che galleggiano sul mare, di cui si vede in superficie soltanto la punta di ciò che rimane sott’acqua. Ecco, questa figura dovrebbe rappresentare il modo in cui ci si approccia alla scrittura: mostrando solo una parte di quello che si vuole comunicare, e lasciando tutto il resto sommerso.

La teoria dell’iceberg è dunque una teoria di omissione. Non si deve dire tutto, anzi: bisogna fare in modo che il lettore intuisca e percepisca anche quello che non si trova scritto sulla pagina. Perché in qualche modo c’è, anche se non è presente direttamente.

Del resto Hemingway era abituato a contenere e limare la propria scrittura: lavorando come giornalista, doveva fare tutti i giorni i conti con limiti di spazio, e non poteva lasciarsi andare a descrizioni prolisse o divagazioni inutili.

Questo stile – lo stile minimalista, concentrato e sintetico – è diventato poi anche la sua cifra narrativa, sostenuta inoltre dalla convinzione che il significato più profondo di una storia non dovesse essere evidente in superficie, ma trasparire in modo implicito.

La teoria dell’iceberg di Hemingway è dunque incentrata sull’idea che in una storia c’è sempre di più di quello che un lettore (o uno spettatore) può vedere. Sopra la superficie c’è soltanto ciò che si coglie direttamente: la trama, i dialoghi, l’azione. Ma è sotto l’acqua che c’è tutto il resto: il tema, il sottotesto, i simboli, i sentimenti, le intenzioni.

È vero che quando si scrive si è tentati di dare quanti più dettagli possibile. Specialmente se il testo a cui si lavora è frutto di lunghe e importanti indagini, si ha voglia di condividere tutto ciò che si è appreso nella fase di ricerca. Quello che ci dice Hemingway, invece, è che non bisogna dare tutte le informazioni, non è necessario spiegare o puntualizzare.

I libri, in fondo, sono creati sia da chi le scrive sia da chi le legge: è bene lasciare ai lettori lo spazio per riempire le storie con la loro immaginazione.

È proprio da qui – da questo “non detto” – che nasce il fascino di una narrazione. L’aspetto più misterioso e indecifrabile che rende un’opera unica e diversa da tutte le altre. Naturalmente, per far sì che questo accada, bisogna prevedere un lungo periodo di lavoro: imparare a scartare, a lasciar andare, riscrivere e poi cestinare. Non ci si può lasciar assalire dalla sindrome dello “scritto che non sa stare in un cassetto” e selezionare soltanto quello che non è considerato superfluo.

Non è un caso che in molti corsi di scrittura, la teoria dell’iceberg di Hemingway è presa a modello come uno dei principi fondamentali da seguire per scrivere una storia efficace (insieme al celebre “show don’t tell” e alla teoria della pistola di Checov).

Parlando di scrittura, lo stesso Hemingway aveva delle abitudini piuttosto serrate. Sveglia prestissimo al mattino – alle prime luci dell’alba – e poi sessioni lunghe ore. Si interrompeva poco prima di pranzo, ma a patto di non essere privo di linfa vitale e di sapere perfettamente come continuare quando avrebbe ripreso a battere sulla macchina da scrivere l’indomani. Contava poi il numero di parole che aveva prodotto e, se ne era soddisfatto, riusciva finalmente a dare inizio alla giornata.

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A dimostrazione di quanto le sue teorie abbiano condizionato generazioni di scrittori e scrittrici, quando nell’ottobre del 1954 l’autore riceve il Premio Nobel per la Letteratura, la motivazione evidenzia non solo la sua maestria nell’arte della narrativa, ma anche la grande influenza che ha avuto sullo stile contemporaneo.

 

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