“Tutto chiede salvezza”, anche nella sua versione televisiva, lascia il cuore pieno, e contiene tutta la complessità non tanto del tema della salute mentale, che non può essere stigmatizzata o ridotta a una sola definizione, quanto di quello della vita, così follemente illogica, una nave dei pazzi sulla quale viaggiamo tutti… – Su Netflix la serie tratta dal romanzo di Daniele Mencarelli

Sentire tutto, sentire troppo. Dalla poesia, al romanzo, alla serie tv, il percorso di Daniele Mencarelli nel disagio mentale è un’indagine del male di vivere piena di compassione e di amore.

Daniele è un ragazzo problematico e sensibile, che in seguito a un episodio psicotico viene ricoverato per sette giorni in regime di TSO nel reparto psichiatrico di un ospedale romano. Lì trova cinque compagni di stanza, cinque naufraghi come lui, uomini che hanno perso l’anima, o la pelle. Essere senza pelle vuol dire avere tutto addosso, la difficoltà del vivere, quella che per gli altri è normalità, essere soffocati dalla sensazione che nulla ha un senso, che tutto pesa, il dolore come la bellezza, che l’uomo è niente più che un rigurgito di vita, per sbaglio. Che cura c’è allora per questa vita quando è l’enormità di tutto che annienta?

“Possibile che nessuno si accorge che semo come ‘na piuma? Basta ‘no sputo de vento pe’ portacce via.
A che cazzo serve tutto?”

Liberamente ispirata all’omonimo romanzo di Mencarelli, vincitore del Premio Strega Giovani 2020, Tutto chiede salvezza è la serie di Netflix prodotta da Picomedia e diretta da Francesco Bruni, che ne è anche sceneggiatore, insieme allo stesso Mencarelli, a Daniela Gambaro e a Francesco Cenni.

Diceva Wislawa Szymborska: “Folli e veggenti, l’unica via per sopravvivere”. La follia non è solo chimica da riparare con le medicine giuste, è uno sguardo puro alla realtà, che Mencarelli chiama la “nostalgia del paradiso”, un ricordo sgranato di una verità, la parte di sé più vitale e dolorosa, estremamente umana. Contemplare i limiti della propria esistenza è malattia, per la società, è qualcosa da riparare, per la scienza, uno sfasamento da mettere a posto.

Serve curarsi, per non farsi male, per non circondarsi di dolore, ma serve anche accogliere la propria individualità, accettare la paura di affacciarsi sul precipizio per vedere oltre, dove gli altri non arrivano a sporgersi. È tutto anomalia che allontana le persone, se non “uniformata e depurata”, ma quello sfasamento è la scintilla capace di vedere oltre la normalità, e di generare il germe della pietà umana.

In quella stanza, nel caldo afoso dell’estate romana, mentre i suoi amici fuori si divertono, e i suoi compagni dentro riempiono la notte di pianti e di incubi, Daniele impara una lezione indispensabile su se stesso, e sugli altri.

tutto chiede salvezza

In sette intense puntate, ognuna per un giorno di TSO, (“una settimana lunga come ‘na vita intera”) la serie lavora di saturazione di emozioni, di spazi e di volti, dove la pagina scritta lavorava di monologo interiore e di poesia. Costruita come una pièce teatrale che si sviluppa nei pochi ambienti dell’ospedale, tra la camera, l’infermeria e il corridoio, si nutre di momenti onirici, quadri di incontri notturni e fantasie, flashback commoventi e canti liberatori, che contribuiscono tutti a un senso di straniamento costante: fanno da contrappeso le rare immagini di esterni di accecante fulgore, di vita, a contrastare con il dentro in cui si è rinchiusi, anche metaforicamente.

Nella spoglia realtà degli ambienti, destinati alla cura, e di per sé oppressivi e claustrofobici, non c’è il vuoto di emozioni dell’internamento: qui c’è il pieno di cuore, nelle parole, nei gesti, negli sguardi dei protagonisti, non solo quelli in cura. “Medici e pazienti, che differenza vuoi che faccia?”.

È nella fatica del vivere, negli amori mai dichiarati, nei dolori celati anche sotto il camice, nella solitudine.

Daniele ha il volto e il candore di Federico Cesari, star di Skam Italia, che regala al suo personaggio una nota spontanea di smarrimento e di limpida sensibilità; accanto a lui Ricky Memphis è l’infermiere Pino, un misto di burbera efficienza e umanità, anche lui affogato nel proprio cuore, nel proprio essere irrisolto. Filippo Nigro recita di sguardi, e di cesello, per un dottor Mancino che mura dietro la freddezza algida degli occhi una sofferenza empatica che affiora a tratti, a guizzi, con una semplicità straziante, perché “ogni storia ha un suo dolore”.

I folli sono gli altri, e fanno paura: quando Daniele si sveglia legato a un letto che non conosce, la carica di panico e rabbia lo sovrasta, ed è la cifra delle prime giornate di ricovero, intense nell’espressività disarmata di Federico Cesari. Poi subentra il ricordo della crisi psicotica e violenta, il senso di colpa e la vergogna che fanno aprire gli occhi sui quei compagni, a vederli e portano al dialogo, alla compassione, al riconoscersi fratelli nella stessa fatica di vivere, nello stesso desiderio di essere normali, come gli altri.

“Quei cinque pazzi sono la cosa più simile all’amicizia che abbia mai incontrato, di più, sono fratelli offerti dalla vita, trovati sulla stessa barca, in mezzo alla medesima tempesta, tra pazzia e qualche altra cosa che un giorno saprò nominare.”

È l’intensità della vita quella che definisce questa “nave dei pazzi”, cinque anime, fratelli di dolore e amore: Gianluca (Vincenzo Crea), fragile, delicato, un personaggio mai sovrabbondante, Mario (Andrea Pennacchi), intenso e umano, troppo umano, Madonnina (Vincenzo Nemolato) che lotta e urla contro il suo buio, lo sgomento senza voce di Alessandro (Alessandro Pacioni), il giovane muratore diventato catatonico per l’imperfezione di un lavoro, Giorgio (Lorenzo Renzi) il gigante rimasto impigliato a un addio mai dato.

Ognuno nel suo angolo di stanza, anime nude, sensibili, ferite, come chi ha fatto della bellezza e della leggerezza il suo lavoro, è ne è travolto: l’influencer Nina (Fotinì Peluso, disarmante nella sua isterica insicurezza) è un’altra faccia di un’umanità sopraffatta, bisognosa di salvezza, come tutti.

I pazzi di Mencarelli parlano una lingua così ricca che arriva direttamente al cuore, non inaridita dalla consuetudine e dalla normalità. È in quella lingua che si cela il segreto della creatività, della possibilità di lasciarsi andare alla propria fragilità. In fondo, la vera pazzia è non cedere mai.

“Non farti raccontare il mondo da nessuno”.

La serie rende giustizia alla potenza del romanzo, alleggerendola, allargando il punto di vista fino ad accogliere una storia d’amore, che è un altro precipizio dal quale sporgersi, per rischiare di vivere anche fuori, tra la gente, che può far paura più del buio dei ricoverati.

Quello che colpisce è la capacità di riuscire a dosare tutto, dolore e tenerezza, allegria e disperazione, rabbia e commozione. È un equilibrio fortunato, che trova spazio per le riflessioni che dalla carta si trasformano sullo schermo in dialogo e per la poesia che diventa sorriso, abbraccio, parlata romanesca e musica.

Tutto chiede salvezza, anche nella sua versione televisiva, lascia il cuore pieno, e contiene tutta la complessità non tanto del tema della salute mentale, che non può essere stigmatizzata o ridotta a una sola definizione, quanto di quello della vita, così follemente illogica, una nave dei pazzi sulla quale viaggiamo tutti.

Perché infine, ripeteva Franco Basaglia, “visto da vicino, nessuno è normale”.

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