“La prima origine degli spaventi indotti per via libresca la rintraccio nella scoperta della saga di Vampiretto”. Su ilLibraio.it, la riflessione della scrittrice Ilaria Gaspari sul gusto delizioso del brivido e dello spavento (e in cui parla anche della serie “Piccoli brividi”: “Per dire questa familiarità con il bizzarro, questa possibilità di allungare una mano e trovarsi in un mondo fantastico, esiste una parola – perturbante – che racconta proprio la sensazione di guardare il mondo a cui siamo abituati, e che forse un poco ci annoia, con occhi allenati a vedere il mistero; che è poi alla fin fine, quello che chiediamo alla letteratura – svelarci, ma per enigmi, lasciandoci il piacere di completare la visione con la nostra fantasia, segreti che altrimenti sarebbero forse rimasti silenti…”

Se dovessi stilare un elenco delle cose che più mi deliziano (e visti i tempi, forse potrebbe anche essere un esercizio terapeutico), ci infilerei i lamponi, i cani che si annusano per strada, le bolle di schiuma in una vasca da bagno, le luci accese nelle case la sera, il riso in bianco, il freddo quando ha quell’odore quasi croccante di aria pulita.

Ci metterei il fuoco nel camino, rosso di brace, le patate bollite tagliate a metà con un riccioletto di burro e un pizzico di sale. Le gambe che ti fanno male dopo aver camminato tantissimo, la pancia che tira per aver troppo riso, le lenzuola lisce da scivolarci su, quando le hai appena cambiate. Il basilico, i pomodori, una birra fresca dopo una gran fatica, e, beh, molte altre cose con cui non vorrei annoiarvi. Ma certo, se vi capita, se vi sentite magari un po’ giù, se le notizie vi opprimono, una lista del genere forse potreste provare a buttarla giù anche voi, non per ricavarne chissà che, solo un lieve senso di benessere; che è comunque meglio di niente.

Il punto è che in questa mia lista dovrebbe trovare posto anche una sensazione molto molto peculiare, che affonda nella memoria infantile; una sensazione di brividi e delizia, di paura rassicurante, una piccola vertigine di spavento che mi fa sentire, ancora adesso, come quei bambini che ho visto solo nei film, seduti attorno a un falò su cui arrostiscono marshmallow, a raccontarsi storie di paura.

È un genere di spavento molto confortevole, da distillare pagina dopo pagina, e che ha qualcosa di consolatorio nelle sue sembianze familiari, rinfrancanti; allo stesso tempo, però, riesce ad accendere la scintilla dell’immaginazione sbrigliata, che è un’altra delle massime delizie della vita – la gioia di ingannarsi per far salire un piccolo brivido, un brivido indotto, però, non di quelli che la vita a volte impone; anche se forse, mi sono sorpresa qualche volta a pensare, se uno sa godersi davvero le sensazioni che prova leggendo, un poco si rafforza anche nel vivere, poi.

Questa sensazione di confortevole spavento è uno dei motivi per cui per me poche cose sono insieme più piacevoli, rilassanti, e felicemente terrificanti del tuffarmi nel mondo di Stephen King: atterrare nel Maine (mai ci ho messo piede, fisicamente, ma quante ore ci ho passato? Fra Derry, e Castle Rock, un’infinità; con qualche puntatina pure a Cabot Cove, dentro la piccola tv a casa della nonna quando all’ora di pranzo compariva Jessica Fletcher), entrare in case in cui tutti si riscaldano in padella dei cibi con nomi rassicuranti da supermercato anni ’70, e ovunque si raccolgono, con chiarezza incantevole, piccoli dettagli vividi e presenti, come i testi sugli adesivi o sui poster, sempre scritti in lettere maiuscole.

È però una sensazione a cui ho iniziato a educarmi nell’infanzia, molto prima di scoprire il Re. Ho cominciato al tempo in cui per leggere mi rifugiavo sotto le coperte per non svegliare nessuno (a casa mia vigeva una regola per cui i bambini, per molto tempo, andavano sul serio a letto presto la sera), con una minuscola lampadina che forse mi avrà pure danneggiato la vista, come minacciavano allora gli adulti, ma ne è valsa la pena.

La prima origine degli spaventi indotti per via libresca la rintraccio nella scoperta della saga di Vampiretto. Era entrato in casa grazie a mia sorella; fu lei a leggerlo per prima. Ricordo la copertina Salani del primo volume che si intitolava, semplicemente, Vampiretto: l’illustrazione (di Amelie Glienke, scopro oggi) mi affascinava, era così gotica – il piccolo vampiro con i canini sguainati, le ali di pipistrello, la luna alle spalle che illuminava il davanzale – e insieme così buffa – perché il vampiro sembrava, anzi era, anche un bambino: i canini sporgenti lo facevano somigliare a tutti noi quando abbiamo avuto una finestrella nel sorriso per aver perso i denti da latte, le ali di pipistrello stropicciate potevano essere anche una mantellina, lo sguardo torvo era lo sguardo di un ragazzino che si maschera da mostro per farti paura. E mi piaceva il nome, mi piaceva da matti; fu così che cominciai a leggerlo anch’io e scoprii le avventure del piccolo Anton, un bambino normalissimo di quarta elementare, proprio come ero io, che vive con i suoi genitori ed è talmente appassionato di film dell’orrore, e in particolare di vampiri, che quando la mamma e il papà escono, il sabato sera, lui è entusiasta di poterne guardare a sazietà; e tanto è forte la sua passione da attrarre sul suo davanzale – si sa che i vampiri sono molto educati e si presentano solo su invito – Rüdiger von Schlotterstein, un vero bambino-vampiro, cioè un vampiretto, con un’intera e molto estesa famiglia di vampiri, problemi di cripte e di bare, e le paure di un ragazzino normale.

Nella vita di Rüdiger e della sua sorellina Anna trovano spazio tutti i tòpoi più classici della vita vampiresca; ma, d’altro canto, l’amicizia con Anton, reale e molto solida, richiede una serie continua di stratagemmi perché i genitori devono rimanere all’oscuro della natura particolare, diciamo, dell’amichetto del loro bambino. Così, a risaltare è il senso di una fascinosa contiguità fra la prosa del quotidiano, del ‘normale’, improvvisamente illuminato di una luce deliziosamente sinistra anche nei suoi aspetti più ordinari, e il mondo soprannaturale che smuove arcaici timori, e per simboli e metafore incatena anche bambini normalissimi, come Anton, alla sua seduzione.

Per dire questa familiarità con il bizzarro, questa possibilità di allungare una mano e trovarsi in un mondo fantastico, esiste una parola – perturbante – che racconta proprio la sensazione di guardare il mondo a cui siamo abituati, e che forse un poco ci annoia, con occhi allenati a vedere il mistero; che è poi alla fin fine, quello che chiediamo alla letteratura – svelarci, ma per enigmi, lasciandoci il piacere di completare la visione con la nostra fantasia, segreti che altrimenti sarebbero forse rimasti silenti.

piccoli_brividi

La saga di Vampiretto, uscita dalla fantasia di una scrittrice tedesca che ora vive in New Mexico e che mi piacerebbe conoscere per dirle tutta la mia ammirazione, Angela Sommer-Bodenburg, si dilata su ben venti episodi: il primo uscito nel 1979, l’ultimo, pensate un po’, nel 2008. Io, purtroppo, a un certo punto smisi di leggerli; ero cresciuta, come Wendy che smette di tornare sull’Isola che non c’è. Nel frattempo avevo scoperto un’altra delizia editoriale per i bambini degli anni ’90, ovvero la serie di Piccoli brividi, creata negli Stati Uniti da R. L. Stine e pubblicata in Italia a partire dal 1994 da Mondadori.

Le copertine dell’illustratore Tim Jacobus, anche in questo caso, mi calamitavano: avevano colori acidi e brillanti come quasi tutto quello che ricordo della fine degli anni Novanta, e rappresentavano, con humour grottesco, scene raccapriccianti e orrorifiche, case maledette, pupazzi di ventriloqui impazziti, cimiteri violati, scheletri e morti viventi straordinariamente allegri. Che forse in qualche modo mi riportavano a un altro piacere dell’infanzia, età in cui il disgusto è un’emozione irresistibile: gli Sgorbions, le figurine trash-demenziali che davano alla parola rivoltante un significato sempre più deliziosamente deteriore.

Era un piacere, quello dei Piccoli brividi, con le loro pagine dal taglio color evidenziatore, un poco più adulto; erano storie che avevano qualcosa di selvaggio sotto la superficie addomesticata, come quelle leggende metropolitane che ci si iniziava a raccontare mentre il mondo che avevamo accettato nell’infanzia come l’unico possibile cominciava ad apparirci quasi noioso, statico, e a tentoni iniziavamo a cercarci dentro il macabro, o lo scabroso, anche solo per il gusto di far vedere agli altri che non avevamo paura; insomma, in quell’età che va sotto il nome di adolescenza, e che è forse la più affascinante e la più invivibile età della vita: quando ci si sente un po’ licantropi e un po’ vampiri e un po’ fantasmi sul serio, perché si inizia a sentire il corpo che si modifica, che cresce e cambia a una velocità forsennata, e forse, il brivido serve anche a rendere accettabile questa cosa che, a ripensarci da adulti, francamente appare assurda.

Presa da molte cose, come tutti gli adulti, come i genitori di Vampiretto che non riescono a vedere che il compagno di giochi del loro bambino è un vero e proprio vampiro, da molto tempo non ripensavo a questo piacere del brivido così come l’avevo scoperto mentre crescevo, e il mio corpo e la mia testa si trasformavano e il mondo che avevo intorno mi dimostrava di poter prendere molte forme, di poter nascondere molte cose e rivelare occasionalmente segreti che forse sarebbero potuti rimanere nascosti.

melissa panarello cuori arcani

Finché non mi sono imbattuta in un romanzo la cui copertina mi ha riportata indietro, al piacere di percorrere con le dita le lettere in rilievo sui Piccoli brividi; in questo caso il piacere tattile è quello di una copertina gommata, di un color oro cupo, ricalcata su una carta dei tarocchi. Il libro è Cuori arcani (Mondadori) di Melissa Panarello: una storia sospesa fuori dal tempo, in una Sicilia mai letta, di monti e boschi e cieli bigi di neve, di misteriose ville liberty con bagni piastrellati da casa di montagna, gelidi da tenere la stufetta accesa. È la storia di una ragazza adolescente, Greta, che nella normalità fin troppo prosaica della sua vita di minorenne affidata a una casa-famiglia, scopre quanto sia sottile il confine che separa il nostro mondo da un altro mondo segreto e invisibile a molti, fatto di segni e simboli che possono prendere vita e qualche volta, anche se siamo abituati a chiamarli fantasmi, avvicinarsi a noi fino a farci innamorare.

 

L’AUTRICE – Ilaria Gasparicollaboratrice de ilLibraio.it, è nata a Milano. Ha studiato filosofia alla Scuola Normale di Pisa e si è addottorata con una tesi sulle passioni all’università Paris 1 Panthéon Sorbonne. Nel 2015 è uscito il suo primo romanzo, Etica dell’acquario (Voland). Ha poi pubblicato Ragioni e sentimenti – L’amore preso con filosofia (Sonzogno) e Lezioni di felicità. Esercizi filosofici per il buon uso della vita (Einaudi).

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