“La leggenda racconta che Ventotene sia l’isola delle sirene. È qui che Ulisse ha stretto i denti e ignorato il loro canto per proseguire il suo viaggio ricordandosi che era da Penelope che voleva tornare. Le sirene incantano e catturano, il loro destino è quello di imprigionare gli uomini, per attirarli dove esse stesse sono imprigionate”. Su ilLibraio.it il racconto inedito di Chiara Tagliaferri, scritto durante il festival letterario di Ventotene “Gita al faro – Scrittrici e scrittori al confino”

Immaginare una prigione è facile, abbiamo in mente tutti com’è fatta una cella: delle sbarre alla finestra, un paio di brandine (di solito letti a castello), una piccola scrivania, un lavandino, qualche poster appeso alle pareti (nei film, almeno, è così).

Più difficile è immaginare come un’intera isola possa trasformarsi in una prigione, eppure Ventotene è nata proprio per diventare un carcere di lusso per donne, figlie o mogli d’imperatori, che dovevano semplicemente sparire.

Per millenni le donne sono state invisibili, e quando hanno provato a prendersi spazio – se non addirittura potere – tentando di modificare un destino scritto dagli uomini, è successo che quegli stessi uomini si sono sbarazzati di loro.

La prima ospite dell’isola risale al 2 a.C. quando Ventotene si chiamava ancora Pandataria ed era fatta di vento, di sale e di mare. Non c’era altro.

Giulia nasce nel giorno stesso in cui il padre, l’imperatore Augusto, divorzia dalla sua seconda moglie Scribonia – madre della bambina – per risposarsi dopo pochi mesi. Secondo la legge romana, Augusto ha la piena potestà sulla figlia, e la esercita per trasformare questa creatura bellissima e colta nella sua arma più preziosa: il bottino di guerra con cui sigillare alleanze.

Gli accordi politici di Augusto, negli anni, si cementano grazie ai tre matrimoni della figlia con fratellastri, generali e amici. Per tutta la vita Giulia è costretta a stare con chi non ama, amando segretamente ciò che non le è permesso desiderare.

Quando viene arrestata per adulterio e tradimento, Augusto si libera di questa figlia che ormai è carne avariata per i suoi affari, stabilendo per lei l’esilio a Ventotene, nella grande villa che stava progettando come tempio di ozio e di svago.

Già che c’è, apparecchia lo stesso destino per la madre Scribonia, risolvendo in un solo colpo due seccature: per i successivi cinque anni niente visite (soprattutto maschili), non un goccio di vino, “ogni delicatezza di vita” è bandita per le prigioniere dorate della villa di Punta Eolo.

Mentre l’isola si popola di contadini, servi e soldati e vengono costruite cisterne per la raccolta dell’acqua piovana e peschiere modellate nelle rocce di tufo, le due donne – con gli occhi pieni di tutto quello spazio di luce incontenibile – mangiano rapaci la loro solitudine odiando quel vento che secca le tube e non porta mai nessuno.

A conti fatti, Giulia è quella che se la cava meglio: perlomeno sull’isola non ci muore, lo farà sulla terraferma, e il ritorno le sarà concesso solo per finire parecchio male, mentre una sorte decisamente più infausta toccherà a una delle sue figlie, Agrippina maggiore, anche lei ospite di questo carcere a cielo aperto nel 29 d.C., per volere dell’imperatore Tiberio.

Moglie del comandante Germanico – in quel momento in missione per Tiberio – Agrippina si macchia di una sola colpa: aver salvato l’esercito romano da una clamorosa sconfitta.

Quando vede che le cose si mettono male, Agrippina decide infatti di mollare il focolare per andare in battaglia sostituendosi al marito, e come comandante delle legioni riporta una vittoria epica.

La cosa non viene presa benissimo da Tiberio, perché se una donna si comporta come farebbe un uomo, allora non rimane più alcuna autorità ai comandanti, così per Agrippina si spalanca l’inferno: il marito finisce avvelenato, lei viene accusata di “arroganza” e uno dei suoi figli di omosessualità. La punizione per entrambi: l’esilio a Ventotene, in quella villa a picco sul mare dove si viene mandati a marcire nei pensieri e nei corpi e dove il presente diventa eterno, dunque significa che è morto, e tu lo sei con lui.

Ma Agrippina non vuole stare nell’immobilità dei giorni a fissare i fiori dei cardi – l’unica cosa che le sboccia intorno – e i loro semi tritati nel mortaio non servono a cicatrizzare le ferite che Tiberio le ha destinato, così scaglia contro l’imperatore lettere che sputano fiele, ricevendo come risposta le fustigate di un centurione e la perdita di un occhio.

Spesso, quando non troviamo una via d’uscita, pensiamo che la nostra unica possibilità sia quella di accelerare la fine, dunque Agrippina e il figlio, dopo quattro anni, lasciano che le loro gambe e le loro braccia diventino stecche di vimini, facendosi morire di fame.

Ma la palma dell’atrocità va senza alcun dubbio a Nerone, che prima confina l’ex moglie Ottavia nella solita villa dal calore narcotico inventando tradimenti che lei, per altro, non si era nemmeno tolta lo sfizio di mettere in atto, solo per potersi sposare senza troppe complicazioni con Poppea. Poi, visto che quest’ultima non è sufficientemente soddisfatta di questo esilio, comanda che a Ottavia vengano recise le vene e anche la testa, che verrà inviata a Roma come regalo di nozze per Poppea.

Potrei andare avanti intrecciando nomi e sventure di altre madri, figlie o mogli spazzate via da crudeltà deliberate, dunque imperdonabili, ma il succo resta lo stesso: Ventotene non ha portato benissimo alle donne, ai tempi dei romani.

Eppure, quest’isola nata per renderci invisibili, è diventata famosa proprio grazie a una donna dagli occhi neri. Dobbiamo cavalcare velocemente quasi due millenni di storia per arrivare agli anni del fascismo, quando Ventotene torna a essere prigione, diventando isola di confinati.

Soggiornano forzatamente qui molte persone non gradite al regime come Sandro Pertini, Eugenio Colorni, Altiero Spinelli e Ernesto Rossi. E sono proprio Spinelli e Rossi a scrivere, sull’isola, uno dei testi fondanti dell’Unione europea che passerà alla storia come il “Manifesto di Ventotene”. Ma a portare quel Manifesto prima in Italia, e poi in Europa, sarà la donna dagli occhi neri sposata con Colorni: Ursula Hirschmann.

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Quando nel 1939 lui viene mandato a Ventotene, Ursula lo segue e non essendo oggetto di provvedimenti restrittivi come il marito, può tornare spesso sulla terraferma. Per due anni, in ogni suo viaggio – cucite nei vestiti e nascoste nel doppio fondo della valigia – Ursula porta con sé le cartine delle sigarette dove, con una calligrafia minuscola, è scritto a matita il testo del Manifesto.

Insieme a Gigliola e Fiorella – le sorelle di Spinelli – e con Ada, moglie di Ernesto Rossi, lo stampa e lo diffonde. L’amore per Colorni si trasformerà, ma non il desiderio di combattere il fascismo e cambiare l’Europa, cosa che a lei e alle sue compagne riuscirà benissimo.

La leggenda racconta che Ventotene sia l’isola delle sirene. È qui che Ulisse ha stretto i denti e ignorato il loro canto per proseguire il suo viaggio ricordandosi che era da Penelope che voleva tornare. Le sirene incantano e catturano, il loro destino è quello di imprigionare gli uomini, per attirarli dove esse stesse sono imprigionate.

Ursula, Gigliola, Fiorella e Ada con la loro voce e il loro coraggio hanno riscattato quelle lontane sorelle senza testa, dimenticate fra i fiori dei cardi, poi hanno liberato gli uomini che amavano e infine anche l’Europa tutta. Ad avercene, di sirene così.

 

IL FESTIVAL E L’AUTRICE –  Il racconto di Chiara Tagliaferri è stato scritto durante l’edizione 2022 del festival letterario di Ventotene “Gita al faro – Scrittrici e scrittori al confino”, giunto alla sua undicesima edizione e diretto da Loredana Lipperini.

Nel corso della manifestazione è stata presentata l’antologia L’isola delle storie, che raccoglie gli oltre 60 racconti composti durante le edizioni del festival e pubblicati da Ultima spiaggia.

Chiara Tagliaferri, che per Mondadori ha pubblicato Strega comanda colore (qui la nostra intervista, ndr), insieme a Michela Murgia è autrice e voce del podcast Morgana.

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