Dopo “Il dono di Antonia” e “La notte ha la mia voce”, Alessandra Sarchi affronta in “Via da qui” un tema che è di tutti: la costruzione di un mondo a cui appartenere e di approdi protetti per mettersi in salvo, per sentirsi a casa. E lo fa con una scrittura essenziale e raffinata di dettagli, di odori e profumi, di parole che liberano riflessioni, ritaglia le immagini nella luce e nei particolari, con una sensibilità artistica che impregna tutte le storie. I racconti di questa raccolta hanno alla base la conferma che sono l’amicizia e i legami a creare i cordoni di sicurezza, a fare in modo di non perdersi, in un mondo arido e globalizzato che fa sentire tutti estranei

Storie di equilibrio di estrema precarietà: i cinque racconti di Alessandra Sarchi sono sbilanciamenti di chi cerca un diverso posto nel mondo e lo trova in una nuova dimensione dell’animo. Le donne protagoniste di Via da qui (minimum fax) si muovono su terreni cedevoli, hanno tetti pericolanti sopra la testa, hanno case fatte di silenzi e argini che richiamano come una calamita, dove c’è il ricordo.

alessandra sarchi via da qui

Le donne di questo libro si ritrovano smarrite, senza àncore a trattenerle, senza appigli a cui aggrapparsi: cercano cosa più le lega a questi luoghi, si fermano incantate di fronte all’odore legnoso di un armadio che ha il significato della memoria e dell’intimità, o a una luce dalla finestra, opalescente, sul mare.

Sono racconti di case, di altrove, di spazi fisici e emotivi: per Monica, che ha perso la compagna Evelyn, la solitudine è soprattutto esclusione, dove la burocrazia non la considera, dove l’espianto è roba di altri, i familiari veri, ma dove la casa è la tana, nella quale poter ritrovare l’amore per Evelyn nel silenzio, negli oggetti, tagliando fuori tutto, e ricomponendo un senso di protezione. Una casa che sa di legno e di vernice ha rappresentato per loro una possibilità, uno spazio dove esistere e pensare di appartenersi, e ora si ritrova svuotata, come il cuore di Monica, espiantato anche lui, dall’impossibilità di donare, perché si dona solo ciò che si possiede.

Per Filippo e Melissa la casa è un sottotetto che rischia di venire giù, un presente abusivo, che si racconta un passato di benessere e di opportunità: resta una fila di scarpe inglesi ben lucidate a testimoniare i tempi che furono, con la paura di un futuro senza certezze. Il sottotetto è un luogo magico, un microcosmo tirato a lucido, di espressione e di libertà, di eccentricità e di rinuncia alle convenzioni: la casa come fuga, dove vivere un’illusione di esistenza da nobili decadenti, un equilibrio senza consumo, senza capitalismo, dove l’arte offre consolazione, e un bello fittizio senza realtà: perché in due si può giocare alla decadenza, seppur curata, ma non in tre.

“Dentro era stupefacente. Lasciò fluttuare lo sguardo in uno stato di meraviglia, scorrendo dal blu vellutato dei divani alle stampe appese ai muri, alle sedie e agli specchi: non riusciva a fermarsi o a stabilire un centro. C’erano troppi oggetti che colpivano la sua attenzione, e poi la luce: in quello spazio era così semplice capire che la luce è un corpo mobile di particelle che attraversano di continuo gli altri corpi e tutto sembrava immerso in un’irreale assenza di peso”.

La disillusione è un tema che percorre tutti i racconti, sia nella sua essenza sociale, professionale, economica, sia in quella affettiva. Un’altana veneziana ospita una serata di Marta coi suoi vecchi amici. Su quel legno scricchiolante ognuno si specchia nella resa dell’altro: i figli desiderati ma mai avuti, la carriera non decollata, il mancato riconoscimento, la sconfitta di fronte ai sogni e alle speranze della gioventù. Ci si guarda in cerca di una responsabilità, si incontra la compassione e la reciproca indulgenza.

Il senso dello sbilanciamento è consapevolezza di estraneità: ci si sente ospiti in casa propria, come Monica, o in un paese, come Annamaria che sotto il cielo oceanico della California si interroga sulle sue scelte sbagliate, sulla sua condizione di eterna straniera. Il sentimento che la anima è quello dell’abbandono: non solo un amore aggressivo, ma anche parti di sé che ha perso per strada, rimuovendo porzioni, persino la lingua, ritrovandosi a recitare a soggetto, come tutti in una società che costringe ad adattarsi, anestetizzati dal sole, mentre si scivola dentro la propria solitudine.

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“It’s ok. You’re all right. Everything is fine. È proprio la rassicurazione che si aspetta e che vuole da Monty. Perché per essere a posto bisogna essere in un mondo a posto e questa, che sembra una scemenza, da un po’ di tempo Annamaria crede che invece sia la maniera americana di collocare l’individuo nella società e nell’universo: ogni parte al suo posto e tutto che funziona, almeno a parole”.

Ines cerca il suo posto indietro nel tempo, nel ricordo, il suo è un cambiamento che parte dalle radici, e risana uno sradicamento. Ritrovare la sorella Rossella è ristabilire un senso di intimità e condivisione che pesca a fondo per progettare un restauro, anche affettivo. Casa è la propria terra, gli scorci pieni di rievocazione, che nutrono il legame e l’identità: ritrovare luoghi a cui si è appartenuto provoca spaesamento, fa scoprire sentimentali. C’è soprattutto, per Ines che ha vissuto lontano troppo tempo, l’urgenza di essere riconosciuta, accettata e accolta, la sua è una mancanza da colmare, una nostalgia, è un grembo materno, nel quale tornare indietro, per rinascere, longing for.

“Rossella non riusciva a decidere se Ines l’avesse cercata come si cerca un appiglio sicuro o si fosse lasciata andare alla deriva nell’unica nicchia di affetto che le fosse rimasta”.

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Dopo Il dono di Antonia e La notte ha la mia voce, Alessandra Sarchi affronta in Via da qui un tema che è di tutti, la costruzione di un mondo a cui appartenere e di approdi protetti per mettersi in salvo, per sentirsi a casa, e lo fa con una scrittura essenziale e raffinata di dettagli, di odori e profumi, di parole che liberano riflessioni, ritaglia le immagini nella luce e nei particolari, con una sensibilità artistica che impregna tutte le storie. I racconti di Via da qui hanno alla base la conferma che sono l’amicizia e i legami a creare i cordoni di sicurezza, a fare in modo di non perdersi, in un mondo arido e globalizzato che fa sentire tutti estranei.

Casa sono gli altri, anche: sono gli amici, le sorelle, le compagne che salvano dal disagio, che rappresentano un rifugio, che puntellano i soffitti del cuore per permettere di accogliere l’inquietudine e andare avanti, di accettare le fratture, di traslocare, di riempire i vuoti. E se c’è una parola evocativa in questo che sprigiona speranza, è la misericordia, degli altri e di noi verso noi stessi, che consente di rimanere in equilibrio tra felicità e disperazione, e di sopravvivere al continuo rito di passaggio, fatto di dolorose fermate e brusche ripartenze, che è la vita.

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