Dal sogno di una vita perfetta alla devastazione causata da un virus implacabile: un romanzo per ricordare a noi stessi cosa è davvero importante. Alla scoperta di “Vorrei che fossi qui” di Jodi Picoult

Jodi Picoult è un’autrice che ha saputo coinvolgere lettori di ogni sorta con le sue storie intense ed emozionanti, spaziando tra generi e personaggi indimenticabili e portando l’interlocutore a riflettere su temi di attualità.

Con il suo nuovo romanzo, Vorrei che fossi qui (Fazi, traduzione di Stefano Tummolini), l’autrice racconta la vicenda di Diana O’Toole, una ragazza decisa e determinata pronta a tutto per tenere fede al proprio progetto di vita: fare carriera nel mondo delle aste d’arte di New York grazie al suo lavoro da Sotheby’s, sposarsi entro i trent’anni e avere dei figli.

Un piano che sembra vicinissimo al compimento quando il fidanzato Finn, specializzando in Chirurgia, le propone un viaggio romantico alle Galapagos, durante il quale avverrà la fatidica proposta. Tutto, però, prende una direzione inaspettata nel momento in cui un terribile virus – quello che rimbalza tra un telegiornale e l’altro ma che sembra così lontano – invade la città. Finn non può lasciare l’ospedale, dunque Diana parte, in attesa di essere raggiunta per riprendere la sua vita da dove è stata bruscamente interrotta.

jodi picoult vorrei che fossi qui

Gli ultimi anni, complici la pandemia e gli sconvolgimenti socio-economici e politici che stanno stravolgendo gli equilibri globali, ci hanno messi di fronte alle nostre paure più recondite, ci hanno portati a sentire l’incertezza come parte della quotidianità, a guardare ogni cosa con diffidenza e a sentirci alienati rispetto a una vita che sentiamo sospesa.

Se si potesse dare una definizione, una sola, di questo romanzo sarebbe “una storia sulle distanze”. Da una parte si affronta l’allontanamento forzato, quello del distanziamento sociale dagli affetti causato dalla pandemia e dal timore dei contagi, ma in senso lato ricorre anche il tema della perdita, della morte come distacco definitivo e presa di coscienza dei momenti che non potrai più condividere.

Dall’altra parte troviamo invece le distanze intese come senso prospettico. È molto interessante un particolare episodio, quando Diana scopre l’Impressionismo grazie al padre restauratore: una tela che vista da troppo vicino è una macchia indistinta di colori, alla giusta distanza è pura magia, a poco a poco si definiscono gli edifici, si percepisce la luce del tramonto, ogni dettaglio prende forma.

Durante tutto il romanzo l’autrice chiede a Diana questo, di soffermarsi a ragionare sul suo progetto, di prenderne le distanze e interrogarsi su quello che sta accadendo, su cosa significa davvero allontanarsi da quanto aveva pianificato e tornare a dare il giusto peso alle priorità.

Cos’è davvero il successo e davvero ha una definizione univoca? Cosa ci rende felici? Le nostre azioni sono mosse da persone giuste ma da ragioni sbagliate?

Per riflettere ulteriormente su questo, infine, l’autrice utilizza le lettere scritte da Finn per far riecheggiare le esperienze dei medici, degli infermieri, dei pazienti sopravvissuti al virus e sottoposti a terapie d’urgenza, così come l’angoscia di non poter far altro che aspettare notizie, in un limbo senza fine. Un aspetto che conferisce al romanzo ancor più intensità e realismo.

Con i suoi scenari in contrasto, dai paesaggi incantati delle Galapagos alle città e agli ospedali devastati dalla pandemia, Vorrei che fossi qui è una lettura delicata e allo stesso tempo potente, dalla quale sarà presto tratto un film per Netflix.

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