A 70 anni dalla morte, George Orwell, autore spesso citato (più o meno a proposito) negli ultimi anni, torna protagonista nelle librerie con diverse nuove edizioni e nuove traduzioni delle sue opere (da “1984” a “La fattoria degli animali”, passando per i saggi e i reportage). ilLibraio.it ne ha parlato con Claudia Durastanti, Vincenzo Latronico Tommaso Pincio e Marco Rossari, traduttori e al tempo stesso scrittori – Le interviste e i particolari

A 70 anni dalla morte, George Orwell, pseudonimo di Eric Arthur Blair (Motihari, 25 giugno 1903 – Londra, 21 gennaio 1950), torna protagonista nelle librerie con diverse nuove edizioni e nuove traduzioni delle sue opere. Non solo di quelle più note, perché è importante non sottovalutare l’Orwell saggista.

Come vedremo nella seconda parte di questo articolo, Orwell non smette di far riflettere, di far mettere in discussione e di generare, attraverso le sue parole e i suoi atteggiamenti, nuove, sorprendenti (ma solo apparentemente) interpretazioni.

Va anche premesso che già da alcuni anni il suo romanzo più conosciuto, 1984, è tornato al centro dell’attenzione. Spesso citato, più o meno a proposito, dai mezzi di informazione o sui social, spesso associato ad altre opere contemporanee (non solo romanzi, ma anche film, serie tv, opere d’arte o teatrali) il testo distopico di Orwell anche in Italia è una presenza costante nelle classifiche di vendita.

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Dicevamo, comunque, delle numerose nuove edizioni delle opere dello scrittore, giornalista, saggista e critico letterario britannico.

L’elenco di pubblicazioni in arrivo è davvero lungo: basti pensare a Garzanti, che a inizio 2021 porta in libreria, nella sua collana di classici “i grandi libri”, 1984 (traduzione di Bianca Bernardi), La fattoria degli animali (traduzione di Claudia Durastanti), Memorie di un libraio (traduzione di Alessio Forgione e prefazione del più noto tra i librai italiani, Romano Montroni), La neolingua della politica (a cura di Massimo Birattari) e Omaggio alla Catalogna (traduzione di Andrea Rizzi); a Sellerio, con Tommaso Pincio a tradurre Millenovecentottantaquattro*; a Einaudi, che ha chiesto allo scrittore e traduttore Marco Rossari di lavorare alle traduzioni di 1984 (postfazione di Thomas Pynchon) e La fattoria degli animali (postfazione di Christopher Hitchens); a Bompiani, che si è affidata allo scrittore e traduttore Vincenzo Latronico per 1984 e La fattoria degli animali; a Newton Compton, che propone 1984, La fattoria degli animali, Senza un soldo a Parigi e Londra, Giorni in Birmania e Omaggio alla Catalogna con le traduzioni affidate a Enrico Terrinoni, Andrea Binelli, Francesco Laurenti e Fabio Morotti; a Feltrinelli, con Franca Cavagnoli che ha lavorato a 1984 e La fattoria degli animali; a Marsilio, con Stefano Manferlotti che si è occupato de La fattoria degli animali; a Bur Rizzoli, con Daniele Petruccioli che ha tradotto 1984 (prefazione di Walter Veltroni) e La fattoria degli animali (prefazione di Dacia Mariani – in uscita anche nella versione per ragazzi); a proposito di edizioni per ragazzi, La Nuova Frontiera ne propone una de La fattoria degli animali (traduzione di Fiorenza Conte), arricchita dalle illustrazioni di Irene Rinaldi e in un formato particolare; dal canto suo Chiarelettere propone una nuova traduzione di 1984, con introduzione di David Bidussa;

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Non è finita: è in uscita per Guanda Omaggio alla Catalogna (tradotto da Massimo Bocchiola), mentre per e/o arriva in libreria ( nella collana Piccola Biblioteca Morale diretta da Goffredo Fofi) Sparando all’elefante, a cura di Stefano Guerriero; a febbraio è invece prevista la pubblicazione da parte di Mattioli 1885 di Un’autobiografia per sommi capi (traduzione di Francesca Cosi e Alessandra Repossi), raccolta di scritti inediti in cui trovano spazio gli anni in collegio, il periodo trascorso in Birmania, il ritorno in India, le riflessioni sull’antisemitismo e molto altro.

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L’elenco potrebbe continuare. Di certo l’offerta è vasta, ma non si possono certo dimenticare le storiche edizioni Mondadori (Meridiano incluso), che in primavera proporrà Orwell ne I Miti.

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Tra i traduttori di queste nuove edizioni ci sono anche quattro scrittori e scrittrici come Durastanti, Latronico, Pincio Rossari. A loro abbiamo chiesto com’è stato occuparsi oggi della lingua dello scrittore che immaginò il Grande Fratello, ebbe una vita tanto breve quanto avventurosa, e per cui l’impegno politico conservò un ruolo sempre importante.

Come leggerete, le loro risposte, che toccano diverse questioni aperte, confermano la centralità e la complessità di un autore come Orwell.

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Nel corso del lavoro di traduzione, cosa l’ha colpita, o magari sorpresa, (ri)leggendo nell’attuale contesto l’opera di Orwell?
C. D. – “Non leggevo Orwell dal liceo. A rischio di essere un po’ secca, questa collocazione in una fase precisa della mia formazione – e presumo quella di molti altri – coincide con molti dei pregi e dei limiti che riconosco a Orwell, soprattutto nel caso di 1984 e La fattoria degli animali. Pochi testi penetrano l’immaginario degli adolescenti come questi, nel momento in cui iniziano a formare un pensiero critico, e nel resto della vita i due romanzi si ripropongono come ritraduzioni di un momento. Ma più di un momento individuale che storico: forse è stato questo l’aspetto a colpirmi di più. Non tanto quanto Orwell parli ancora del presente, quanto sia stato visionario, tutte letture che mi sembrano un po’ fruste e didascaliche, ma quanto la sua rilettura sia uno strumento utile per tenere conto di una propria evoluzione in termini di sottigliezza di analisi. Sicuramente l’autore troverebbe questa interpretazione blasfema, ma ho scoperto un Orwell come barometro privato, per capire quanta distanza ho messo tra me e certe metafore del potere. Quindi ho tradotto La fattoria degli animali da adulta, pensando all’impressione che ne avevo avuto da liceale e cercando di pensare a quei lettori, saltando poi a piè pari in una dimensione fanciullesca. Riprendendo il testo originale, mi sono accorta pienamente del senso di A fairy story sotto al titolo, che in italiano ho voluto mantenere come “Una storia fiabesca”. Tradurre un classico significa fare i conti con come sei invecchiata tu, non solo il testo, e in questo processo ci sono anche sorprese. Per me nella Fattoria degli animali si è un po’ spenta la parte prettamente satirica sulle gerarchie, si è persa quella componente situata e specifica legata allo stalinismo, mi ha interessato di meno. Le vicissitudini dei dittatori diventano un contenitore in cui puoi infilare molto altro: non a caso in una circostanza ho tradotto la parola ‘Leader’ con ‘Capitano’, con ovvi rimandi al contesto italiano. Può sembrare una scelta qualunquista, ma questa traduzione mi ha fatto molto riflettere sulla necessità di capire come si sono evoluti i colori ideologici, le forme e i vocaboli del potere, del controllo, dello sfruttamento, e dunque se non ci fosse stato il testo a fronte che per forza di cose spinge a una maggiore ortodossia, avrei tradotto ‘Meeting’ a volte con ‘Convention’, a volte con ‘Briefing’ e altre volte avrei lasciato proprio ‘Meeting’ in base alle circostanze, per rendere conto di come la classe dirigente sfrutta spesso l’inglese per camuffare dei vuoti e confondere i cittadini. C’é poi da tenere conto che non si scrive e non si traduce in un vuoto: come Orwell era testimone del suo presente, trovo impensabile che traducendo La fattoria degli animali in piena pandemia non emergesse una riflessione sulla costante e sfiancante emissione di decreti governativi spesso disorientanti. Insistere su questo termine era un modo lieve di tenere traccia di un contesto, e dunque spero che inserire ‘decreto’ anche quando Orwell usa ‘policy’ o ‘arrangement’ contribuisca a rafforzare questo nesso con il proprio tempo. La parte del libro che per me invece è sopravvissuta in maniera forte, etica, bella, commovente e spietata è quella sul lavoro: sullo sfruttamento (immaginavo gli animali della fattoria come rider), sull’illusione della piena automazione (pensiamo alla costruzione del mulino per affrancare dal lavoro), l’illusione del luxury communism come da dibattito attuale. E così mentre traducevo l’inglese Orwell, pensavo a un altro grande inglese, Mark Fisher, che non è stato un romanziere ma è stato una voce morale del suo tempo nella forma del saggio, e ci ho trovato impreviste somiglianze nell’attenzione al rapporto tra fantasia e potere, nello slancio umano teso a riparare un’alienazione inglesissima, e a come l’Inghilterra anticipi sempre le forme più crudeli del capitalismo, ancora oggi, ancora peggio che negli States. Senza testo a fronte, avrei spinto ancora di più su questa componente e lettura fisheriana, ai limiti del paradosso. E proprio per queste ragioni, anche solo a livello suggestivo, ho pensato che la canzone Animali inglesi cantata dagli animali come inno alla libertà, cambiasse suono nel corso del testo. Da marcetta quasi folk all’inizio a pezzo di Burial verso la fine. Ho sentito proprio una depressione nei suoni. Ma queste sono solo idee di traduzione, che non si possono sempre rendere, e fanno parte della mia esperienza e immaginazione a prescindere dagli esiti. Forse entreranno in un diario di traduzione un giorno”.

V. L. – “Orwell aveva una fiducia nel bisogno umano di libertà che per certi versi oggi appare molto ottimista. I suoi lettori si immedesimavano con Winston, che aborre il controllo costante delle tecnologie di partito. Anche i lettori di oggi lo fanno; e poi spendono cifre altissime per portarsi in tasca, in casa, dei dispositivi di sorveglianza infinitamente più penetranti di quelli immaginati da Orwell: e questa sorveglianza non viene combattuta o fuggita, ma abbracciata con gioia. Probabilmente non accetterei una voce berciante nel mio appartamento che ogni mattina mi intima di fare ginnastica; eppure ho installato, pagandola, una app che mi manda delle notifiche se faccio jogging meno a lungo o meno spesso del solito”.

T. P. – “La sua adattabilità ai tempi. In realtà, ero già consapevole di questa qualità. Averne però conferma in un momento particolare, lavorando su Millenovecentottanquattro all’esplodere della pandemia, mentre mi trovavo bloccato in Estremo Oriente, in un posto non molto lontano da dove Orwell ha prestato servizio come agente della Polizia Imperiale, è stata comunque una rivelazione. Si parla spesso di Orwell come di un profeta. Credo tuttavia che questo suo romanzo in particolare sia principalmente un libro di magia nera, un testo capace, cioè, non tanto di anticipare i tempi, quanto di mutare nel tempo, adeguandosi allo sguardo dei posteri. A differenza di tanti altri classici, che si fanno universali restando comunque ancorati al loro tempo, il romanzo di Orwell sembra scritto espressamente per le epoche a venire assumendone le sembianze. È una creatura mutante e buona parte di questa sua natura quasi demoniaca deriva proprio dalle due lingue che lo abitano: quella in cui è scritto, l’Oldspeak, l’inglese corrente, e quella verso cui tende il mondo che ci viene descritto, il Newspeak, l’inglese mutilato. Non per nulla, benché assenti nell’azione del romanzo, i traduttori hanno un ruolo centrale e il libro si chiude proprio con un riferimento al loro lavoro. Tradurre Millenovecentottantaquattro significa dunque, che lo si voglia o no, diventare partecipi del processo di mutazione linguistica immaginato da Orwell”.

M. R. – “Le sensazioni nuove mentre traduci ci sono sempre, perché passi un tempo enorme dentro un testo, è un’esperienza di lettura molto più profonda di quella normale. In questo caso ho percepito molto di più le tensioni sessuali, il dolore fisico (più che psicologico) della persuasione totalitaria. Ma alla fine il sentimento che ti resta di più addosso è la tristezza. Resta il libro di un uomo che sta morendo. E l’addio tra Winston e Julia – la camminata nella città gelida, la strana indifferenza reciproca fatta di dolore e intontimento – è una delle pagine più strazianti della letteratura”.

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Nella traduzione del linguaggio di Orwell, quali si sono rivelate le sfide principali? 
C. D. – “Ho lavorato solo su La fattoria degli animali, dunque la mia risposta è limitata e filtrata da questa particolare traduzione. Ma se pensiamo alla conversazione oggi sui testi ibridi, sui quasi-romanzi, quasi-saggi, è chiaro che Orwell un po’ disorienta, perché tendiamo a credere che pur essendoci una continuità tematica nelle sue opere (l’attenzione al lavoro, allo sfruttamento, la povertà, la destituzione e manipolazione, oltre che verso la solidarietà e le reti tra persone anche attraverso il viaggio), sia stato uno scrittore capace di ripartire la sua produzione, quasi come in una catena di montaggio. Con un’idea ordinata di quel che faceva. E dunque esiste l’Orwell profeta, l’Orwell testimone, quello favolista e visionario, e quello giornalistico e cronachistico. E questa ripartizione crea anche partigianerie: c’è chi lo trova debole quando si affida a fantascienza e allegorie e sublime invece nell’esordio Senza un soldo a Parigi e Londra, o pienamente compiuto in Omaggio alla Catalogna. C’é chi pensa che oggi appunto lo ricordiamo per le ragioni sbagliate, per le favole sul potere e meno per il viaggio personale dentro agli effetti del potere. Mi pare che questa sia un’idea di superficie. Quel che penso è che la sfida che propone Orwell oggi, o meglio, diciamo, l’invito, è re-immaginare un po’ la questione dell’intellettuale e del rischio. In una bella intervista rilasciata da Elizabeth Hardwick negli anni sessanta che ho letto di recente, la scrittrice parla di come nel tempo si sia smaterializzata questa idea dell’autrice o dell’autore versatile su tantissimi fronti e in tanti generi, intanto che si andava affermando una crescente specializzazione. Un’idea di competenza nel romanzo, nel saggio, un po’ in tutte e due ma poco altro. Penso che nonostante la conversazione sui testi ibridi molto in voga, sotto sotto questa idea di specializzazione esiste. Anche questo desiderio di rischiare di meno con la propria voce, pena il fallimento, l’imbarazzo, l’inadeguatezza. Di Orwell, per me, sopravvive invece quel rischio, e un’idea di varietà, ma che non coincide mai con una segmentazione della scrittura in cui i vari reparti non comunicano tra di loro. Penso sia la sua eredità più importante, e che andrebbe valorizzata come merita in questi giorni in cui torna alla ribalta”.

V. L. – “Al di là dei neologismi veri e propri, penso che per me sia stato molto faticoso rendere quella strana combinazione di precisione e formularità con cui descrive certi dettagli o persone. In certi casi Orwell lavora quasi con degli epiteti, espressioni o frasi che ritornano in maniera letterale ogni volta che torna un certo personaggio; e oltre al loro contenuto, proprio come gli epiteti in poesia hanno anche una sorta di scansione melodica, un mood, che si riflette sul loro oggetto, un po’ come il tema di un dato personaggio in un’opera, ritornando, ci aiuta a intuirne l’interiorità”.

T. P. – “Direi che la mia preoccupazione primaria è stata quella di rendere palpabile un aspetto cui accennavo prima: l’incombere minaccioso di una lingua che si prefigge di soppiantarne un’altra. Per far ciò, oltre che ripensare il Newspeak nel suo complesso, ho scarnificato la voce narrante, operando su vari piani, a cominciare dall’abolizione, per quanto possibile, di ogni tratto suggestivo. Il Newspeak si prefigura come una lingua impoverita, perché è convinzione del Partito che riducendo lo spettro semantico delle parole si riducono anche le associazioni che esse possono suggerire e dunque la possibilità di spaziare con la mente. Se controlli una lingua, controlli anche le persone che la parlano: l’assunto è questo. Orwell può immaginare di perseguire la riduzione della parola a puro suono breve perché in l’inglese cose e azioni essenziali vengono indicati quasi sempre con monosillabi (bed, sleep, eat, food ecc.), diversamente dalle nozioni più astratte e complesse, espresse invece con parole di derivazione greca o latina e dunque fatalmente più lunghe. L’italiano, in questo, è agli antipodi rispetto all’inglese e si  caratterizza quale lingua pressoché esclusivamente letteraria, dunque più arabescata e suggestiva. Per questo non è tutt’altro che agevole rendere in italiano ciò cui davvero mira il Partito di Millenovecentottantaquattro attraverso il Newspeak. Bisogna operare per sottrazioni meno appariscenti; per esempio, evitando quanto più possibile l’uso del congiuntivo o dei verbi composti. Che è poi il motivo per cui sono giunto alla conclusione che la voce narrante dovesse asciugarsi: per evocare l’avvento definitivo del Newspeak. Questa lingua scabra, segaligna, è inoltre un riflesso di quello che è il tema profondo del romanzo: i limiti della speranza e le sue conseguenze. Certo, i libro si propone come monito politico, ma ciò su cui siamo davvero chiamati a interrogarci sono l’apparente mancanza di una via di salvezza, l’apparente impossibilità di una rivolta e un cambiamento effettivi”.

Sparando all'elefante e altri scrittiLa fattoria degli animali marsilioGeorge Orwell Mattioli 1885

Una curiosità: la parola o la frase che l’ha messa più in difficoltà nella traduzione?
C. D. – “Più che la parola, direi proprio le due canzoni: Animali inglesi e Il compagno Napoleon. Temevo che rendessero il testo più desueto, nella mia ricerca di una rima brillante (la ricerca delle rime conduce nell’abisso delle parole improbabili e che non si usano più), e c’era pure lo sforzo imposto di essere originale allo stesso tempo, essendo questi dei segmenti in cui è più semplice fare i confronti tra le traduzioni. Ma ho chiesto una consulenza a un’amica poetessa, e sono abbastanza soddisfatta del risultato. Anche se proprio qui emerge inevitabilmente la lingua di un altro tempo. Chiaramente oggi Animali inglesi sarebbe un pezzo rap, mentre Il compagno Napeoleon avrebbe melodie it-pop! Una cosa di cui sono molto contenta, invece, è aver resto ‘Comrades’ con ‘Compagni e compagne’: una resa diversa oggi non dovrebbe esistere, e già così è limitata (ho pensato all’uso di schwa in seconda battuta, soprattutto con l’idea che il testo si rivolga ad adolescenti, e questo in generale è un buono spunto per ripensare a limiti e sfide date dal testo a fronte”.

V. L. – “Senza ombra di dubbio ‘Big Brother’. L’espressione ‘Grande Fratello’ è ormai entrata nell’uso comune con un’accezione aggiuntiva; non solo, si potrebbe legittimamente ritenere che in origine non fosse una traduzione accuratissima (‘Big Brother’ è qualcosa che un bambino direbbe del fratello maggiore; l’italiano invece è goffo, evocativo). Ne ho discusso molto con Marco Rossari; io alla fine ho deciso di lasciarlo in inglese, come anche le espressioni di quella trasformazione dell’inglese che è il newspeak, la ‘neolingua'”.

T. P. – “Non mi soffermerei su singole parole o frasi. Spesso le traduzioni vengono discusse prestando un’attenzione quasi esclusiva ai singoli dettagli, alla resa di certi termini o determinati passaggi. A maggior ragione accadrà con Millenovecentottantaquattro per via dei suoi tanti termini problematici, a cominciare dall’ormai proverbiale Big brother. Sono tuttavia aspetti su cui si può discutere all’infinito senza giungere a una conclusione condivisa e soprattutto senza cogliere il cuore di una traduzione, che va pesato nel suo impianto generale, nel taglio che il testo assume passando da una lingua all’altra. Quindi, più che parlare delle mie difficoltà, vorrei esprimere un ringraziamento sentito all’editore Sellerio che ha optato per il titolo in parola anziché in cifra. Malgrado sia un fatto noto e evidente che il romanzo si intitola Nineteen Eighty-Four e non 1984, non è affatto automatico che un editore rompa una tradizione consolidata pregiudicando l’immediata riconoscibilità del libro. Ci tengo a dire che non ho esercitato alcuna pressione in tal senso. Ho sì spiegato all’editore prima e nella prefazione poi le ragioni del titolo in parola, ma tanto mi sarebbe bastato. Quando infine ho ricevuto le bozze e ho visto Millenovecentottantaquattro è stato un dono. Giunto peraltro senza fanfare. Nessuno della casa editrice ha rimarcato la cosa, facendola passare per una concessione. Anche questo silenzio è stato un dono, un segno di eleganza e amore per la letteratura oggi non più tanto scontato”.

M. R. – “Più che una frase specifica, Orwell genera problemi di continuo, perché la prosa è molto nitida, pulitissima. Lui diceva che doveva essere come il vetro di una finestra e tu ti ritrovi a pulire un vetro che non esiste. La sensazione è quella di non arrivare mai non dico alla perfezione, perché in traduzione non esiste, ma a una resa soddisfacente”.

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