Con il suo nuovo romanzo, “A grandezza naturale”, Erri De Luca guarda alle voragini del 1900, alle vite disgregate dalla contestazione, dalle diaspore, agli scugnizzi di Napoli, agli emigranti estranei ovunque. Con un tono secco, esatto, di chi anche nella lingua ha imparato a farsi bastare quello che c’è, rifuggendo l’inessenziale, l’autore ricompone le storie estreme dell’umanità, pagando un debito di riconoscenza col passato, con la consapevolezza e il rimorso che tra padri e figli non si chiude, non si conclude niente – L’approfondimento

Basta una parola, ebraica, tedesca o russa, a Erri De Luca (in copertina, nella foto di Adolfo Frediani, ndr) per annullare il tempo, accorciare le distanze e accostarsi a Marc Chagall e a Isacco. Figlio come loro, estraneo a metà nelle storie di genitori, lui che non è mai stato padre.

Essere figlio per sempre annulla le fratture delle generazioni, non conosce il passato remoto dell’essere l’adulto che vede crescere, definirsi e poi allontanare il proprio sangue. Essere padre vuol dire accettare anche gli strappi che sembrano lutti, dolori abissali di perdite, sotto forma di sacrifici offerti, coscientemente, ma anche atti di libertà e di identità subiti, talvolta atti di disobbedienza.

In queste pagine unisco storie estreme di genitori e figli”: A grandezza naturale (Feltrinelli) inizia con Marc Chagall, nato Marek. Davanti a una tela restituisce la nostalgia del padre in colate di nero, cercando un risarcimento a una rottura che lui stesso ha creato. Un displaced, Marc, che ha lasciato la sua terra, è andato a Parigi, ha disconosciuto l’odore delle aringhe, l’odore paterno che adesso tenta di onorare, facendone colore, perché kabbèd insieme a onora ha il significato di un peso, quello ricevuto a venire al mondo, quello dato agli altri, quello del rimorso nel cuore. Nella lontananza del suo esilio, Marek-Marc sente la riconoscenza verso il padre e lo dipinge, a grandezza naturale, per guardarlo ancora in faccia, riconoscendone i segni.

erri de luca a grandezza naturale

“Prima sparge un arcobaleno opaco in macchie e punti intorno alla testa, un’aureola fatta di coriandoli. È sfondo luminoso, com’è il passato, che non era così quando era presente. Lo diventa sotto la pressione del rimorso e della gratitudine”.

Marc ha smesso di parlare yiddish, la lingua degli annientati, trovando una nuova grammatica da forestiero, consapevole che non si estirpano le proprie parole, sono quelle che affiorano nella spontaneità del dolore, e parlano con i suoni di casa, nella solitudine di una notte di dialogo interiore. “Tate, tàtele, bleib gezint”, papà stammi sano.

Nelle storie estreme di De Luca ci sono i figli che hanno rinnegato la propria origine, che hanno cercato di cancellarla, come la figlia del criminale di guerra che non può fare altro che una scelta totale: negarsi per sempre la genitorialità, per interrompere l’eredità di odio. Si chiama Befehlsnotstand, la costrizione dovuta a obbligo di obbedienza, una ricerca di attenuanti per le colpe dei padri. Solo così, non potendo sciogliere il vincolo di figlia, impedisce a se stessa di essere madre, si fa via senza uscita, senza costrizione.

Ci sono figli che hanno superato i padri: Akedà è la parola ebraica che definisce l’incaprettamento di Isacco. Pronto a farsi sgozzare senza una parola di difesa, perché non c’è terra o esilio che possa accogliere in pace un figlio ribelle al padre. Offrendo polsi e caviglie alla legatura, Isacco sancisce un legame definitivo, un nodo che non si scioglie, nemmeno quando i capi della corda vengono spezzati da Abramo, convocato da una voce nella più severa storia di genitori e figli mai scritta, una prova di obbedienza che annienta.

“Proprio io scrivo questo? Qui m’imbatto contro me stesso. Per molto meno di un incaprettamento su un’altura mi sono ribellato. Per molto meno ho disobbedito a mio padre dritto in faccia. È stato insopprimibile”.

L’adolescenza è il momento della separazione, della ricerca della propria strada altrove, fuori dalla casa natale: è quella dell’autore, che ha risposto alla chiamata della sua generazione ed è andato, lasciandosi alle spalle lo strappo di una camicia, il suono di un tradimento.

La verità è che le lezioni dei padri permangono, nei valori condivisi, negli insegnamenti non dettati ma vissuti, partecipati: per Erri figlio c’è il senso profondo di onestà e rettitudine di una famiglia per bene, di un’educazione fissata sul principio del farsi bastare quello che c’è, di vivere senza pesi e debiti. C’è una gratitudine sentita nella pelle, nel calore della brace, in gesti che sembrano vecchi e sono solo eterni.

“Da te, dovevo dirgli, da te ho preso e lasciato, restando figlio tuo, cranio da cranio, libri, vino e montagne. Non mi è uscito. Scriverlo adesso a vita sua dispersa è tacere più profondamente”.

Muovendosi tra le parole che uniscono le storie, l’autore de La natura esposta e Impossibile guarda alle voragini del 1900, alle vite disgregate dalla contestazione, dalle diaspore, agli scugnizzi di Napoli, agli emigranti estranei ovunque, risalendo nella storia, a Mosè custode e poi al padre nostro che allontana il coltello di Abramo, ma sacrifica suo figlio, fino all’atto di amore supremo e semplicemente umano di improvvisarsi padre per morire insieme ai figli degli altri a Treblinka.

Con un tono secco, esatto, di chi anche nella lingua ha imparato a farsi bastare quello che c’è, rifuggendo l’inessenziale, Erri De Luca dipinge il suo ritratto a grandezza naturale della paternità, ricomponendolo attraverso le storie estreme dell’umanità, pagando un debito di riconoscenza col passato, con la consapevolezza e il rimorso che tra padri e figli non si chiude, non si conclude niente. Non esiste scioglimento perché l’akedà è definitiva, anche ricomposta a memoria, anche riconosciuta e onorata a distanza, di chilometri o di anni, anche accolta in un addio tardivo, perché dal proprio sangue non ci si può dissociare.

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