Silvia Di Natale in libreria con “Una donna nell’ombra. Le memorie di Gina Lombroso”, romanzo storico che, ambientato in un periodo di grandi cambiamenti per l’Italia, racconta la vita della divulgatrice, medico e scrittrice pavese, concentrandosi sulla personalità, la fragilità, la forza, il dolore e il desiderio d’amore e di libertà spirituale di questa figura fuori dal comune – Su ilLibraio.it un estratto

Seconda dei cinque figli di Cesare Lombroso, antropologo e criminologo positivista noto in tutto il mondo, Gina Lombroso cresce nell’ambiente intellettuale della colta famiglia ebrea piemontese, e viene educata in modo anticonformista e cosmopolita. Dopodiché, appena dodicenne, comincia ad aiutare il padre nel suo lavoro di studioso e divulgatore.

Ha inizio così la sua carriera di “donna nell’ombra”, che non a caso dà il titolo al romanzo dedicato alla sua vita che ha curato Silvia Di Natale (autrice nata a Genova nel 1951): parliamo di Una donna nell’ombra. Le memorie di Gina Lombroso, raccontato nella forma di una sorta di “diario ritrovato” della protagonista, che l’artista e sociologa, nonché già autrice di Kuraj (Feltrinelli, vincitore del Premio Bagutta) e di altri sette romanzi di viaggio, ha pubblicato con Edizioni Clichy.

È fra le sue pagine che riscopriamo come Gina Lombroso, da sempre abituata a dedicarsi agli altri membri della sua famiglia, subordini i propri desideri a quelli dell’amato papà, anche se fin da giovanissima inizia a essere dilaniata da un dubbio: deve seguire le proprie inclinazioni o adattarsi al modello di donna che le viene offerto?

Silvia Di Natale

Silvia Di Natale

In realtà nessuno in famiglia, tranne la sorella Paola, valuta pienamente le sue capacità intellettuali. Si iscrive così a Lettere, una facoltà che non ama, e solo dopo aver conseguito la laurea chiede e ottiene di poter studiare a Medicina, una facoltà che a quel tempo non veniva frequentata dalle ragazze. Si laurea a pieni voti, ma eserciterà solo saltuariamente la professione di medico.

Siamo negli ultimi anni dell’Ottocento, Torino sta diventando la capitale italiana dell’industria e i Lombroso aderiscono alle idee socialiste, soprattutto grazie a due frequentatori abituali del loro salotto: Anna Kuliscioff e Filippo Turati, con cui saranno in contatto per tutta la vita.

Quando, dopo un interminabile fidanzamento, Gina Lombroso accetta di sposare lo storico e romanziere Guglielmo Ferrero, brillante collaboratore del padre, il suo sogno è quello di poter scrivere un’opera a quattro mani con il marito, aspirazione che si rivelerà utopica.

Nel frattempo mette al mondo due bambini e, al seguito del marito, fa diversi viaggi, tra i quali i più notevoli sono quelli nell’America del Sud e negli Stati Uniti. La coppia ha amici in tutta Europa e la loro casa, prima a Torino e, dopo la morte di Cesare Lombroso, a Firenze, sarà fino all’avvento del fascismo un punto d’incontro per gli intellettuali europei.

Nel 1930, Gina e Guglielmo lasciano l’Italia e si trasferiscono a Ginevra, dove continueranno ad accogliere i profughi provenienti dall’Italia, ebrei e non, e dove entrambi moriranno: Guglielmo nel 1942 e lei nel 1944.

L’autrice, nel frattempo, ha pubblicato anche delle opere sue, in cui mette a fuoco i temi che più le stanno a cuore: le conseguenze dell’industrializzazione e le caratteristiche dell’anima della donna. Scettica verso tutte le teorie che propagano l’assoluta uguaglianza tra i sessi, Gina Lombroso vuole infatti mettere in luce la peculiarità dell’anima femminile e crede di poterla identificare nella dedizione verso gli altri.

Una donna nell’ombra ripercorre così la sua vicenda umana, sentimentale, politica e professionale, concentrandosi al tempo stesso sulle piccole cose, le delusioni, le speranze, le apparenti luci e le virgole storte della sua vita, in un romanzo storico i cui personaggi, soprattutto quelli femminili, risultano ancora molto attuali.

Copertina del libro "Una donna nell'ombra. Le memorie di Gina Lombroso" di Silvia Di Natale

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, pubblichiamo un estratto:

Anna Kuliscioff era una donna del tutto eccezionale, mai e poi mai io o Paola avremmo potuto diventare simili a lei. Aveva avuto fin da giovanissima una vita avventurosa. La sua militanza tra gli anarchici, la sua fuga dalla Russia, lo studio in Svizzera, la sua relazione con Andrea Costa, la bambina che educava da sola, infine la sua relazione con Filippo Turati: tutto in lei era fuori dalla norma, inimitabile, degenerato in senso positivo, avrebbe detto papà. Aveva studiato medicina – in questo sì avrei voluto imitarla una volta terminato il liceo, ma non ero tanto sicura di riuscirci – era anche una scienziata e stava facendo degli studi scientifici che avrebbe presto pubblicato. Come se non bastasse, sapeva parlare al pubblico, e come parlava! Con i suoi argomenti sempre brillanti, logici, inespugnabili, sapeva affascinare uomini e donne. Papà le dava ragione persino quando parlava delle donne, anche se non era affatto d’accordo con lei, anzi, i suoi argomenti erano l’esatto opposto di quelli della Kuliscioff. Lei lo contraddiceva con rigore logico, incalzandolo, ma con un garbo e un’eleganza che lo disarmavano. Così bisognava parlare se si voleva toccare non soltanto la mente, ma anche il cuore della gente. L’ammiravo incondizionatamente, ma sapevo che non poteva essere un modello per me. Le opinioni che esprimeva e la vita che conduceva erano troppo diverse da quelle a cui ero abituata, seguire il suo esempio avrebbe significato separarmi da tutto ciò che conoscevo e amavo e avrebbe avuto per conseguenza l’abbandono del sistema – il «sistema-papà» – a cui ero così legata. Non ne sarei stata capace. Non siamo tutte nate Anna Kuliscioff e non è facile diventarlo. Paola invece, dal modo in cui prendeva il suo esempio alla lettera, si sarebbe detto che era convinta di riuscirci.

«Così, così dobbiamo fare! Altro che famiglia e star zitte dietro un marito…»

«Paola, non ti vedo a star zitta dietro un marito» ribattevo io.

Paola ignorava l’obiezione.

«Avere una professione nostra, partecipare alla vita politica, poter finalmente votare, anche noi donne!»

«Che te ne faresti, Paola, di quel diritto? Ti faresti eleggere in Camera o almeno nella giunta comunale?»

«E perché no? Non credi che ne saremmo capaci?»

«Non so se ci troveremmo bene, se saremmo felici».

«È che non sei abituata a pensarlo. E che c’entra poi qui la felicità? O piuttosto, che tipo di felicità t’immagini, per te? Non è detto che corrisponda all’idea che ne ho io, invece. Noi, col fatto che papà è così aperto a tutti e che tanta gente diversa ci fa visita, Anna, per esempio, o Turati, crediamo che il mondo sia quello e giri intorno a noi. Ma non è vero! Noi viviamo completamente fuori dal mondo! Il nostro mondo è papà, le nostre idee sono le sue, siamo in teoria libere di pensare quello che vogliamo, ma nella pratica pensiamo quello che ci impone lui. Poi arriva una come la Kuliscioff e ci dice che le cose vanno in una maniera differente e noi restiamo qui mute e confuse e non sappiamo più che cosa credere!».

Paola non aveva tutti i torti. Il sistema Lombroso che si era creato intorno a papà, pur essendo apertissimo a tutti i visita tori e a tutte le idee, era perfettamente funzionante da solo, al di là delle regole esterne, e garantiva a tutti quelli che ne facevano parte sicurezza e libertà di vedute, se non una vita gaia. Papà era al centro e io ruotavo intorno a lui. Tutta la mia vita era in funzione della sua. Ero io a svegliarlo la mattina e a fargli i massaggi alla schiena, mentre lui mi esponeva le cento idee che gli erano venute durante la notte. Ancora a letto, facendo colazione mi dettava un articolo, un’aggiunta a un libro, una modifica per un altro già pubblicato. Erano quelle che chiamava le idee della notte, ma poi c’erano le idee del cappello, quelle che gli venivano a getto continuo per la strada. Qua si non facevo in tempo a fermare sulla carta tutto quello che mi dettava. Appuntavo anche gli esperimenti che gli sarebbe piaciuto fare o una risposta arguta a un avversario. Continuavo a occuparmi anche delle lettere, valanghe di lettere che gli arrivavano da tutto il mondo, a cui lui non faceva in tempo a rispondere, e tanto non sarebbe riuscito a scrivere in modo leggibile, perciò rispondevo io e gliele sottoponevo solo per la firma. Avevo il mio daffare, tanto più che c’era anche la scuola e volevo assolutamente finire nel tempo previsto per potermi iscrivere a medicina. Con tutto il lavoro per papà – traduzioni, passare in bella gli appunti, andare da Bocca a portare un manoscritto – e quello per Paola – leggere i suoi articoli e discuterli con lei che aveva sempre da controbattere alle mie critiche – non avevo neppure tempo di guardarmi intorno. Con tutta la gente che circolava nella nostra casa! Moltissimi erano ragazzi, studenti di papà, e noi li trattavamo senza pensare affatto che con i maschi ci si dovesse comportare in una maniera differente. Non mi veniva neppure in mente che qualcuno potesse guardarmi. Paola sosteneva che i maschi non le interessavano: li trovava rozzi, impacciati, oppure infinitamente noiosi. Come facevano le cugine a interessarsi tanto a loro? Paola aveva diciotto anni ed era di un palmo più alta di me che avevo preso la statura del papà – un gigante nano, come lo definivano amorevolmente i suoi studenti. Non mi chiedevo neppure se fossi bella o no, tanto la cosa mi sembrava insignificante. La consuetudine a stare con persone dell’altro sesso aveva reso i nostri rapporti con i ragazzi camerateschi. Erano nostri pari, si parlava, si scherzava, si discuteva seriamente, sedevamo alla stessa tavola, a volte facevamo passeggiate e grandi merende insieme. Paola e io eravamo sempre le uniche ragazze della compagnia, eravamo abituate così, che c’era di strano?

Guglielmo Ferrero entrò a far parte del sistema Lombroso l’anno in cui dovevo prendere la licenza liceale. Era stato papà a volercelo a ogni costo. L’aveva sentito parlare a un banchetto con studenti di Pisa venuti a Torino con il professor Zerboglio. Era bastato quell’unico discorsetto perché papà si convincesse che aveva a che fare con un genio e che quello studente poco più che adolescente era l’assistente che cercava. Non era stato facile rintracciarlo. Papà, che fin dalla prima sera ce ne aveva parlato come di una mente eccezio nale, si era disperato e si era dato dello stupido per non averlo ingaggiato sui due piedi. Dopo lunghi scambi di missive, finalmente Zerboglio era riuscito a trovarlo grazie alla lista degli studenti presenti al famoso banchetto. Papà lo convocò a Torino, lui venne, ascoltò la proposta del famoso psichiatra e antropologo – aiutarlo nella stesura del suo nuovo libro sulla donna delinquente – la accettò e si trasferì a Torino dove si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza. Contemporaneamente però era iscritto alla facoltà di lettere a Bologna dove inse gnava il Carducci, perciò vi tornava di quando in quando per sostenere gli esami. Quando papà ce lo presentò, l’impressione che ne ricavammo noi ragazzi non fu delle più lusinghiere. Era altissimo e altrettanto magro, il viso lungo, le braccia che non finivano più e sbucavano con delle mani enormi da maniche eternamente troppo corte e polsini di camicia consunti dai troppi lavaggi. Aveva le guance pallide di chi passa troppo poco tempo all’aria aperta, il collo che sembrava nuotare in colletti troppo bassi. Un adolescente che non si sente ancora del tutto a suo agio negli abiti da uomo. Quel che ci stupì subito fu la sua assoluta serietà, anzi, la sua assolutez za in tutto. Quando apriva la bocca era soltanto per dire cose estremamente originali e intelligenti e per esprimere pensieri acutissimi che seguivano una logica inoppugnabile. Parlava però con una tale chiarezza, senza nessun ghirigoro, senza fronzoli, senza una parola che fosse di troppo, e parlava esattamente il tempo giusto, senza eccedere o ripetersi, senza perciò annoiare mai chi lo ascoltava. Capii presto perché papà si era invaghito di lui e perché lo voleva assolutamente come suo assistente. Papà passava spesso di palo in frasca, smarriva per strada la logica di un ragionamento: stava magari per parlarci di qualcosa di importante, quando d’un tratto si fermava, il volto gli si illuminava di gioia, puntava il dito alla finestra: «Guardate che colori quelle cime! Le nuvole, incredibile come le trascina via il vento!». Oppure aveva scorto un fiore che non conosceva e si chinava a osservarlo da vicino e noi con lui e quello che stava dicendo si dissolveva nella nuova scoperta, anche minima, come se la realtà continuasse per lui ad avere più peso di tutti i discorsi. Quel modo di parlare e di agire, che a noi bambini piaceva molto perché era in fondo il nostro modo di stare al mondo, era anche il suo maggiore difetto. Papà si distraeva facilmente e distraeva gli altri, saltava – letteralmente – era difficile che stesse fermo a lungo, in piedi o seduto su una poltrona, ma lo vedevamo spesso saltar su come una palla, chinarsi, muovere dei passetti veloci in una direzione o nell’altra, non era capace di stare fermo, spesso era difficile seguire i suoi discorsi. Ma anche nello scrivere era così: era frequente che le sue intuizioni geniali venissero interrotte da un commento inopportuno o superfluo, una descrizione letteraria si infilava in una dimostrazione scientifica, i suoi libri erano sempre qualche cosa a metà tra letteratura e scienza. Guglielmo Ferrero, e papà aveva dimostrato nella sua scelta un intuito straordinario, era l’esatto opposto. Per lui, quando parlava o studiava, il mondo esterno cessava di esistere. Non aveva argomenti che gli fossero cari più di altri, non parlava al cuore, ma esclusivamente alla mente di chi l’ascoltava, e si aspettava che anche gli altri facessero la stessa cosa. Se questi, chiunque fossero, perdevano il filo di un ragionamento, divagavano, o peggio sostenevano sciocchezze o evidenti falsità, la sua fronte si aggrottava, gli occhi gli si scurivano, aspettava per educazione che avessero finito di parlare poi li annientava punto per punto, con una logica stringente che non lasciava adito a contraddizioni. A metterli a confronto, papà quasi sessantenne e il giovane non ancora ventenne, sembrava che il vecchio fosse il secondo. Papà ne aveva un po’ soggezione, probabilmente temendo di essere sorpreso a dire qualche inesattezza. Il Ferrero glielo avrebbe fatto notare, con garbo, ma con impietosa precisione. Per lui le parole avevano un peso e dovevano essere prese alla lettera e non soltanto quelle della scienza, anche quelle di tutti i giorni, che servivano magari soltanto a prendere accordi momentanei. Se papà gli dava appuntamento alle cinque all’entrata della libreria Bocca, il Ferrero a quell’ora precisa era là, e non si era mosso di un passo dalla porta, neppure per guardare la vetrina. Papà, che era un ritardatario consumato – c’era sempre qualcosa o qualcuno che lo tratteneva per strada e non c’era verso che arrivasse all’ora stabilita – con lui bofonchiava una scusa frettolosa, cosa che non faceva con nessun altro.

Tra di noi all’inizio ridevamo di quel ragazzo così poco giovane e del suo modo pedante di riferire le cose. Paola era bravissima a farne la caricatura imitando uno dei suoi bollettini meticolosissimi: «Stamane, addì ventinove settembre del milleottocento ottantanove, alle ore nove e quarantasei minuti, come convenuto, avendo io varcato il portone del palazzo del famoso editore Bocca per ripararmi sotto la volta essendo il tempo alquanto incerto, fui costretto in seguito a un’attesa di altri quarantacinque minuti essendo stato il professor Cesare Lombroso intrattenuto per strada da un saltimbanco ambulante». Ridevamo. Nando paragonava il Ferrero e papà a Don Chisciotte e Sancho Panza, come nell’illustrazione del libro che papà ci aveva regalato (in spagnolo!): chiaramente papà faceva la parte del furbo e sciocco Sancho, Ferrero invece era il cavaliere errante già per la sua statura. Era irriveren te, ma mi univo anch’io alle risate. Però il Ferrero ci incuriosiva. Non parlava mai di sé. Sapevamo a malapena che aveva un anno più di me; era nato a Portici, ma la sua famiglia era di Torino dove era tornata da tempo. Che avesse dei fratelli lo sapevamo soltanto perché uno di loro era a scuola con me e un altro con Ugo, che cosa facessero i suoi genitori era un mistero.

Papà aveva ingaggiato il Ferrero perché voleva affidargli una parte de La donna delinquente, il libro che stava scrivendo. Nessuno capì mai perché avesse voluto proprio lui, uno studente di diciannove anni che non aveva alcuna esperienza di libri e tantomeno di donne. La scarsa esperienza del pur intelligentissimo assistente doveva presto venire alla luce ed essere d’impaccio all’opera comune. Ferrero avrebbe dovuto occuparsi della parte introduttiva, quella storica, ma non capiva che cosa gli si chiedesse di fare. Papà dissentiva con quel lo che il suo assistente scriveva, ma non osava dirglielo; lui che era così battagliero quando doveva tener testa a un avversario, non osava invece contraddire un collaboratore e fargli notare dove sbagliava. Erano tutti e due disperati. Decisi allora di prendere la parte che mi era stata assegnata dall’infanzia e di fare, se non da paciere, almeno da chiaritrice fra i due. Papà non sapeva spiegarsi bene, però io che lo conoscevo sapevo che secondo lui il Ferrero non doveva trascrivere i testi che aveva letto citandoli parola per parola, e neppure farne un esame critico, bensì esporli traendone il nocciolo, ma in una maniera viva, leggibile, non con lo stile ancora troppo scolastico e pedante che usava. Glielo dissi senza mezzi termini, anche se con delicatezza, per non offendere la sua sensibilità. Vidi le sue guance che si coloravano di un lieve rossore, come un primo della classe che abbia sbagliato un compito, ma mi ascoltò con attenzione, anche se accigliato, fece qualche domanda e il giorno dopo mi presentò il testo che aveva rifatto. Feci qualche osservazione, e lui obbediente lo modificò di nuovo prima di presentarlo a papà che questa volta approvò. Diventò un’abitudine: prima di sera il Ferrero veniva da me e mi sottoponeva quello che aveva scritto. Io facevo le mie osservazioni, lui correggeva; si vedeva che era punto nel suo orgoglio, ma era troppo intelligente per non capire che avevo ragione. Papà, che non so quanto fosse al corrente della mia mediazione, indirettamente confermava che i miei suggerimenti erano giusti. Così continuammo per qualche mese, finché il discepolo non ebbe più bisogno del mio aiuto, ma non per questo cessò di chiedermi il parere su ciò che andava scrivendo: diventò un rito a cui ci attenevamo scrupolosamente senza sospettare che sarebbe diventato il nostro legame più solido.

(continua in libreria…)

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