Angelo Ferracuti firma il memoir “Il figlio di Forrest Gump”, sul padre Mario, un postino dalla vita sedentaria che, scampato a un cancro alla parotide, improvvisamente comincia a correre, a 60 anni, proprio quando un incidente impedisce all’autore di continuare a fare sport – Su ilLibraio.it un capitolo
Angelo Ferracuti (Fermo, 1960), è autore di romanzi e ibridi narrativi, ed è tra i fondatori della Scuola di fotografia e letteratura Jack London.
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Ora firma per Mondadori il memoir Il figlio di Forrest Gump, un memoir sul padre Mario, un postino dalla vita sedentaria che, scampato a un cancro alla parotide, improvvisamente comincia a correre a 60 anni, proprio quando un incidente impedisce all’autore di continuare a fare sport.
Quando Mario Ferracuti comincia, sembra non smettere più, fino a stabilire dei record importanti. Diventa quello che il figlio, avviluppato nella sua giovinezza ribelle, non avrebbe mai sospettato: una leggenda, il terzo italiano per numero di gare effettuate. Dopo la sua morte, Angelo Ferracuti decide di scriverne, raccontando le sue imprese sportive, proprio come il padre gli aveva chiesto tante volte di fare.
Un libro intimo, che al tempo stesso racconta l’epica della corsa e delle sfide, ma anche l’epica delle battaglie politiche degli anni Settanta. Un padre e un figlio a confronto sulle strade del mondo, per raccontarci di cosa sono fatti i sogni che ci tengono fra cielo e terra.
Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:
Ci fu una volta in cui Vito mi invitò a presentare la pellicola restaurata di Toro scatenato di Martin Scorsese.
Non avevo nessuna voglia di rivedere quel film, mio padre era morto da poco lasciandomi una forte inquietudine dentro, ma a Vito non potevo dire di no, e adesso a distanza di anni dovrei ringraziarlo anche di questo.
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Quando muore qualcuno che è stato importante per noi, ci attraversano i ricordi, i rimorsi, soprattutto gli atti mancati. È come se si mettesse la parola fine a una storia che non possiamo più scrivere, alla quale non possiamo aggiungere o togliere niente, perché è tutto detto, è tutto fatto, e allora si avverte un senso profondo d’impotenza e di perdita.
In quei giorni avevo cominciato a fare i conti con mio padre, forse stava prendendo corpo l’idea di scriverne, forse stavo cercando una forma e una voce, sapevo che quella storia avrebbe vissuto dentro di me come una trama vivente.
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Ero l’unico spettatore, il film era tutto per me, quel giorno, una situazione già abbastanza inconsueta. Da una fila in alto guadagnai un posto più in basso, a metà sala: distesi le gambe in avanti, mi guardai intorno, ero davvero da solo, e questa cosa mi emozionava, e allora il film cominciò. C’era Jake La Motta che saltellava sul ring, l’accappatoio di raso addosso, che boxava coi guantoni mulinando colpi nell’aria, in sottofondo la Cavalleria rusticana di Mascagni, poi arrivava la scena di lui vecchio nel 1964 al declino, quando alla fine della carriera, dopo aver perso tutto, si esibiva ubriaco e imbolsito nei locali, il sigaro in bocca, l’aria fintamente strafottente che nascondeva una straziante malinconia.
C’è sempre qualcosa di ridicolo nella decadenza di un uomo, i fallimenti fanno anche ridere, non sono solo drammatici, hanno questa miscela umana di doloroso e comico.
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Come scrisse Willy Pep, il peso piuma italoamericano: “Il declino di un pugile? Prima si perde il movimento di gambe. Poi si perdono i riflessi. Poi si perdono gli amici”. Era proprio così, valeva per qualunque categoria umana. Dai perdenti ci si tiene alla larga, ci ricordano le nostre sconfitte, abbiamo terribilmente paura di diventare come loro.
Ecco, una cosa che per anni avevo fatto insieme a mio padre era guardare gli incontri di boxe, avevamo visto insieme fino a notte tarda Nino Benvenuti contro Griffith, quando il pugile triestino divenne campione del mondo dei medi, poi quando aveva perso il titolo con Carlos Monzon stavamo seduti sul divano senza dire una parola. Erano belli quei momenti. Non succedeva niente di particolare, ma stavamo uno vicino all’altro, tutti e due con gli occhi fissi sullo schermo a guardare la stessa identica cosa, cioè due uomini sopra un quadrato che si sfidavano mandando a segno dei colpi uno contro il corpo dell’altro.
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Per te Benvenuti era troppo tecnico, ti piaceva di più Mazzinghi, che era un vero combattente del ring, ma il tuo vero idolo era stato Rocky Marciano, che si era ritirato imbattuto dopo aver difeso il titolo sei volte. Quarantanove vittorie e nessuna sconfitta, quarantatré per KO, aggressivo e potente, un destro terrificante. Era il tuo idolo perché non aveva perso mai.
Ricordo quando Benvenuti andò al tappeto durante il primo match con Carlos Monzon, dopo averlo braccato e colpito più volte, fu raggiunto da un destro del messicano all’angolo nel corso della dodicesima ripresa, poi crollò implodendo su sé stesso, si rialzò barcollando e finì con l’abbracciare le corde senza riuscire più a combattere.
Il momento della caduta di un uomo è l’aspetto che mi ha sempre appassionato e commosso. Che fosse un fallimento economico, il declino di un pugile, la caduta di un motociclista, una lettera di licenziamento, la sconfitta al tavolo verde, lì era il nodo che mi stringeva la gola.

Angelo Ferracuti, nella foto di Marilena Imbrescia
Quei ricordi mi attraversarono la mente quel pomeriggio mentre al buio stavo guardando il film, e osservavo anche la sala intorno, ancora incredulo di essere l’unico spettatore. Il film non c’entrava niente con mio padre, era la storia di un uomo visceralmente violento che fuori dal ring era incapace di vivere e alla fine perdeva tutto, restando senza affetti e solo come nessuno. Quello era il mio eroe, diverso dall’idolo di mio padre, che non perdeva mai: il dio di mio padre non cadeva mai al tappeto, vinceva sempre, scattava sulla pista e superava tutti come un fulmine, alla Pietro Mennea, saltava con l’asta più in alto di tutti e sulla vasca doppiava gli avversari vincendo sette medaglie d’oro olimpiche come Mark Spitz. Alla fine del film, quando Jack La Motta è dentro il carcere in una cella buia e si dispera tirando cazzottate e testate contro il muro, ho cominciato a piangere come mai avevo pianto negli ultimi anni.
Ho pianto per noi, babbo, credimi, per noi due, ho pianto le lacrime che non avevo versato al tuo funerale, scendevano sulle guance, scendevano a mia insaputa come se piovessero dal cielo. Fuori dalla sala, finito di piangere, ho cominciato a ridere e ancora a ridere come un folle, quasi per liberarmi dall’ansia che avevo accumulato. Ridevo ma era come se continuassi a piangere.
(continua in libreria…)
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Fotografia header: Angelo Ferracuti, nella foto di Marilena Imbrescia