Ne “Il rovescio dell’abito” Marta Morazzoni racconta un mito moderno, una protagonista assoluta della Belle Époque: la marchesa Luisa Casati. E lo fa senza giudizio, regalando un ritratto profondo e affascinante di una donna senza eguali

“La carne non è che spirito promesso alla morte”.
(Gabriele D’Annunzio)

Occhi dipinti di nero, viso gessoso di cipria, ciglia finte di visone e capelli rosso fuoco: Luisa Casati è stata una sovrana dell’esibizione, una donna che in società ha indossato una maschera e interpretato se stessa in un’apoteosi di eccentricità e di lusso.

Nobildonna dall’indiscusso fascino androgino, alta, magrissima, con voce roca e grandi occhi, “la Luisa”, sposa diciannovenne del marchese milanese Camillo Casati Stampa di Soncino, si distinse subito per la dote munifica e un patrimonio personale smisurato. Una ricchezza messa a disposizione della sua sete di stravaganza e di un carisma insolito che l’hanno resa celebre e immortale.

La sua apparizione era un fuoco d’artificio, perché lei, scenografica nel suo trucco pesante e nei suoi travestimenti ricercati, voleva essere un’opera d’arte e ha vissuto così, l’Europa come un palcoscenico.

La divina marchesa, che passeggiava per Venezia con un ghepardo al guinzaglio, che trattava piazza San Marco come suo salotto privato, dove accogliere gli ospiti come una dogaressa, che viveva di champagne circondata da opere d’arte nella sua residenza fuori Parigi, è morta poverissima. Un patrimonio dilapidato sull’altare dell’eleganza, di uno stile di vita oltre ogni immaginazione, dove ogni cambio d’abito era un’entrata in scena, sensazionale, memorabile. Icona di circoli futuristi, musa delle avanguardie artistiche, regina dei salotti e dei ricevimenti più eccessivi, era stata capace di sbalordire persino Gabriele D’Annunzio. Inimitabile, nemica della sobrietà e della mediocrità, amante dell’esuberanza e della vanità, ha fatto della spettacolarità la sua firma, e la sua rovina.

Il rovescio dell’abito di Marta Morazzoni (Guanda) coglie la marchesa nell’attimo in cui la straordinaria festa della sua esistenza si blocca e le luci si spengono: la visita del fidato avvocato Bassi le rivela che non possiede più nulla, che tutti i suoi beni saranno confiscati. La donna che venne ritratta da Boldini come un fastoso pavone si ritrova all’inizio degli anni ’30 senza una pietra su cui posare il capo.

“Si strinse nello scialle d’angora e si raggomitolò sulla poltrona: non le era mai capitato di pensare quanto spazio occupava il suo corpo, quanto aveva speso per rappresentarlo, e quanto aveva alimentato con esso l’altrui fantasia, stimolato le invenzioni”.

Una vita di esagerazioni che Luisa vive sfogliando il suo guardaroba come un album dei ricordi, o un catalogo di dipinti: negli spazi della palazzina del Vésinet nella quale la Morazzoni la racconta, sola e circondata dei suoi ritratti e dei suoi gioielli, la marchesa ricapitola i suoi possessi come pietre miliari di un progetto artistico che lei ha costruito passo dopo passo, vestito dopo vestito, scegliendo tessuti, colori, accostando monili per completare l’opera d’arte che voleva rappresentare per ogni segmento della sua vita.

A fare da contraltare, il senso di una normalità spartana e solitaria, quella dell’avvocato Bassi, un uomo benestante e semplice, che è disarmato di fronte alla rovina, e ancora di più di fronte alla leggerezza a tratti grottesca ma infinitamente umana con cui la marchesa sembra non affrontare la realtà: i loro incontri sono dialoghi tra universi così diversi che creano una vertigine, e non sono scevri dall’ironia del contrasto.

Ne Il rovescio dell’abito la narrazione costruisce un senso di straniamento costante, nel quale la marchesa persegue un’immobilità del tempo, dove continuare la sua esistenza di privilegi: si cambia d’abito, si trucca, impartisce ordini alla servitù, offre champagne a un attonito avvocato. Aveva sempre vissuto staccata dalla realtà e così affronta la costruzione di una nuova sé con il senso irresponsabile di chi non conosce e pertanto non capisce il vero significato della povertà.

È questo distaccamento che Marta Morazzoni costruisce con sensibilità, avvolgendo la marchesa in una cortina di inconsapevolezza, venata di negazione, con una miopia che le confonde i contorni degli oggetti, e di sé, la rende instabile, abbagliata e confusa di fronte alla verità. Restano i vestiti a fare da testimoni colorati e silenziosi della Luisa che era stata. È in questa inconsistenza sfuocata che affiorano le immagini e le scene del passato, in un continuum che ha la levità del sogno, o dell’allucinazione, immerso in una solitudine nuova e impossibile da gestire, perché tutti gli amici e gli spettatori si sono dileguati. Il palcoscenico è vuoto, e la regina nuda.

“Giornate sempre uguali. Lei metteva in scena se stessa, ogni mattina, senza pubblico. Le pareva paradossale avere ancora tutto il repertorio del suo teatro a disposizione e nessuno per cui rappresentarlo. La domanda «cosa farò?» adesso cominciava a morderla, la aggrediva nei momenti di distrazione, si insinuava tra le righe del catalogo dei beni che continuava a compilare e che tra un mese si sarebbero volatilizzati”.

In queste scene che emergono in un tempo bloccato e stordito, compare anche l’ombra di Olga, la sarta fedele, alleata, compagna e artefice della rappresentazione di eleganza che non temeva nessuna occasione, e coglieva ogni momento per essere esibizione. I suoi non erano vestiti, ma abiti di scena. Non c’è stata donna più estranea di Luisa Casati alla materialità del denaro, semplicemente non ne faceva conto, e spendeva per circondarsi del bello, per essere ricordata con stupore.

Passato il confine della realtà, messa di fronte alla verità, la marchesa Casati non si perde d’animo, patteggia con il mostro dentro di lei, lo continua a travestire, a imbellettare, per vivere anche la sua ultima interpretazione con la teatralità che l’ha contraddistinta, per affrontare il suo viale del tramonto con l’artificio e l’eleganza che l’avevano resa unica, sulla tela degli artisti e nei salotti del mondo.

“Che peccato, si disse il Bassi, che tutta questa eleganza e distinzione e persino follia debbano finire.”

Follia, è vero, ma Marta Morazzoni scrive senza giudizio, regalando un ritratto profondo e affascinante di una donna senza eguali che sulla carta non viene celebrata né valutata, ma raccontata con vividezza nella sua umanità, scintillante ma anche disarmante, quando inizia a mostrare i segni del tempo e dello sbandamento.

Lo sguardo dell’avvocato, che è intriso di senso pratico, è quello più umano, sconfortato e realistico, accusatorio ma compassionevole di fronte a una dea degli inferi dagli occhi bistrati di nero. Dopo Il dono di Arianna, Marta Morazzoni racconta un mito moderno, una protagonista assoluta della Belle Époque: la marchesa Luisa Casati esce di scena a testa alta, con un’interpretazione da regina, una Sarah Bernhardt con doppio filo di rare perle nere e pelliccia, ed è sconsideratamente sublime.

“Le dee non muoiono, passano, e quel che lasciano indietro al loro passaggio è qualcosa che non ha a che fare con la memoria, è piuttosto un’ostinata, materica persistenza. Questo aveva sempre pensato di sé. Inutile cercare di capire e annaspare alla ricerca di una ragione. Non c’era. C’era lei, umana infinitamente”.

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