“Avevano conosciuto l’amore passionale e divorante, quello in cui ogni secondo di lontananza è vissuto come un deserto infinito, avevano poi assistito malinconici alla trasformazione di quel sentimento in qualcosa di più domestico, convenendo, quando l’aspetto casalingo aveva iniziato ad annoiare entrambi, di non precludersi altri incontri e di non vietarli all’altro, nel limite del rispetto reciproco” – La storia di una donna che ha deciso di non conformarsi, ma ha scelto di perdersi per ritrovarsi e ha costruito una famiglia in cui la libertà di ognuno è la prima regola da rispettare. Su ilLibraio.it un capitolo da “La famiglia degli altri”, romanzo d’esordio di Elena Rui

Elena Rui, nata a Padova nel 1980 e laureata in lingue straniere, vive in Francia da quindici anni. Ad Albi, Tolosa e Parigi ha insegnato italiano, tradotto e curato redazioni commerciali. A definirla sono soprattutto la passione per la scrittura e la pasticceria, due diversi modi di creare.

Ora Garzanti porta in libreria La famiglia degli altri, il suo romanzo d’esordio.

Le convenzioni sociali hanno una sola utilità: offrire un rifugio sicuro quando non si sa bene che cosa fare. La pensa così Marta che, a trentaquattro anni, ha scelto di andare controcorrente, di non seguire i dettami della società e costruire una famiglia anticonvenzionale con il compagno Antoine.

A unirli c’è il progetto, ambizioso e sentito, di seguire le orme di Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir, la coppia aperta per eccellenza. Ispirandosi ai due filosofi, Marta e Antoine credono che l’amore sia la più alta forma di libertà. Proprio per questo non deve conoscere costrizioni, ma esprimersi in un rapporto in cui la fiducia reciproca cancella ogni forma di esclusività e si traduce, prima di tutto, in un’intensa comunione intellettuale.

Finora Marta si è detta convinta delle proprie scelte. Ma quando la morte improvvisa di nonna Ada la costringe a lasciare Parigi, dove vive e lavora, e a tornare nella natia Padova, le fondamenta del suo sistema di pensiero iniziano a traballare. Ben presto, tra saluti e cortesie di circostanza, Marta si troverà a fare i conti con una realtà fatta di segreti sepolti sotto una facciata di perbenismo. Segreti che faranno vacillare anche le sue poche e un tempo solide certezze. Perché la verità è che non esistono famiglie ideali e perfette. Ogni famiglia è felicemente imperfetta a modo suo.

Rui consegna il ritratto di una donna fragile e tenace che, senza inseguire false illusioni, prova a cucirsi addosso l’abito esistenziale che le dona di più.

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:

Vivere nel XV arrondissement aveva anche i suoi vantaggi: l’estrema pulizia delle strade, una concentrazione di parchi giochi rara per una metropoli, una profusione di ottime panetterie, macellerie, formaggerie, drogherie, pasticcerie. La gente, però, era quanto di meno interessante potesse esistere per Marta: famiglie cattoliche benpensanti, con una media di quattro figli ciascuna e una tata nera che faceva il giro di asili nido e scuole per recuperarli tutti prima di sera. Sembrava di essere in un villaggio della Virginia degli anni Cinquanta con le domestiche di colore che servivano padroni bianchi. Il cinema di quartiere dava solo titoli commerciali dall’incasso sicuro o cartoni animati, e l’evento culturale che riscuoteva più successo era, appunto, la festa della famiglia.

Marta interruppe la lettura in diagonale dell’articolo sulla manifestazione per proporre ad Antoine di pranzare insieme in qualche crêperie in rue d’Odessa, nel quartiere di Montparnasse, sperando, invero, che si ricordasse del compleanno e la invitasse nel ristorante marocchino dove erano soliti celebrare le occasioni importanti. Avrebbe dovuto chiedergli i soldi del volo – non glieli avrebbe sicuramenti rinfacciati malgrado la loro separazione di fatto. La tratteneva una forma di pudore: per quanto fossero tuttora sposati e i loro doveri reciproci non fossero mutati né secondo la legge né secondo il loro sentire, il fatto di non vivere più insieme la metteva di fronte all’evidenza di non poter badare economicamente a sé stessa e alla sua bambina senza di lui. Lo aveva sempre saputo, lo sapevano entrambi, ma in quella fase di stasi creativa e d’incertezza sentimentale, alle prese con un’ipotesi di romanzo che faceva acqua da tutte le parti, quell’evidenza le pesava.

Non aveva previsto di trascorrere il pomeriggio con Giulia: doveva prepararsi, rilassarsi, raccogliere le forze, organizzare attività da svolgere con lei. Per mantenere un clima sereno con la figlia, le era necessario dividere l’infinita distesa di secondi e minuti di una giornata in unità finite e misurabili. Non avere quell’accortezza significava, nel migliore dei casi, ritrovarsi a letto la sera a rimuginare, fra angoscianti sensi di colpa, su frasi infelici pronunciate in momenti di ordinaria follia. La durezza di certe parole, il tono con cui si rendeva conto, sempre troppo tardi, di averle pronunciate erano in palese contrasto con tutti i suoi principi pedagogici: argomentare, non ricattare, non minacciare, non schiacciare il bambino sotto il peso della propria autorità, nascondere la propria frustrazione e così via. Principi granitici prima del concepimento e durante la gravidanza, ma con cui nel quotidiano era venuta spesso a patti dopo la nascita della figlia. Quando si lasciava annichilire dalle continue provocazioni della bambina anziché mostrare la prontezza di spirito necessaria per prevenirle o contenerle, espressioni che in bocca di un altro avrebbe trovato indelicate le sfuggivano senza neppure avere il tempo di rendersene conto. Invece della dolcezza di nonna Ada, della sua disponibilità senza limiti, la relazione con Giulia aveva rivelato in lei le stesse inadeguatezze che, da piccola, imputava a sua madre. Ogni volta che, dopo una sfuriata, l’attraversava il dubbio di assomigliarle, si sentiva sconfitta, come se avesse fatto un lungo viaggio per ritrovarsi al punto di partenza.

Nel bene e nel male Giulia era una bambina disarmante. A parte quando dormiva, non esisteva momento della giornata in cui non fosse impegnata in qualche attività. Di base, stava perlomeno parlando, o piuttosto monologando, disquisendo, con un lessico bizzarramente preciso, su questioni di cui nessuno l’avrebbe immaginata edotta. Il problema era che in momenti precisi, impossibili da prevedere, pretendeva che quel flusso ininterrotto di parole, ragionamenti e richieste trovasse subito un interlocutore attento, esigenza che si manifestava soprattutto quando la persona prescelta era, a sua volta, impegnata in compiti che ne inficiavano la reattività. Si mostrava ancor più intollerante quando la vittima era assorbita da una conversazione con una terza persona; allora metteva in atto una serie di strategie per ottenere una qualsivoglia forma di attenzione, fosse pure una strigliata o uno sguardo di disapprovazione. Poteva sferrare un calcio, saltare a piè pari sull’alluce di chi aveva osato non rispondere con pertinenza, o eventualmente urlare, o mordere, e di preferenza entrambi, magari attaccandosi alla manica o al bordo della maglia del malcapitato. La Simone de Beauvoir delle Memorie d’una ragazza per bene, che rievocava con compiacimento le manifestazioni d’ira della sua infanzia come presagi di un destino fuori dal comune, avrebbe trovato Giulia molto promettente.

Nulla dell’aspetto angelico della bambina lasciava presagire la furia con cui poteva esprimere disaccordo o frustrazione: i boccoli corvini che sfuggivano alla coda di cavallo ricadevano su un faccino di un ovale perfetto in cui tutte le proporzioni erano rispettate con la precisione che determina la bellezza. Il contrasto di colori contribuiva a impreziosire il viso: capelli scuri, pelle lattea e lunghe ciglia nere che si abbassavano su grandi occhi verdi. Nessuno ricordava occhi simili né nella famiglia di Marta, né in quella di Antoine. Fatta eccezione per gli imprevedibili occhi smeraldo, forse per una progressiva e inconsapevole adeguazione del desiderio alla realtà, le fattezze di Giulia corrispondevano in modo sorprendente a quelle della bambina che Marta aveva immaginato durante la gravidanza. Non lo avrebbe mai ammesso, ma fra le sue paure di gestante c’era in primo luogo la malattia o l’handicap, poi la bruttezza e la deformità. Lo “scarafone che è bello a mamma sua” era un’attitudine nobilissima di cui non era sicura di essere all’altezza. Ma se i lineamenti delicati e il corpicino esile di quella creatura corrispondevano alle sue fantasie di gestante, l’indole di Giulia era un aspetto di cui non riusciva a capacitarsi. Giulia era la personificazione della contestazione, l’espressione più spontanea, più disarmante e più sincera di un intelletto incapace di sottomettersi acriticamente a un’autorità prestabilita: il primo giorno della sua vita aveva dormito un’ora, le restanti ventitré le aveva passate a piangere, o meglio a urlare paonazza dalla stizza, dalla disperazione o da qualche stato di malessere indecifrabile. Fin dal primo istante aveva voluto annunciare e ribadire che non era venuta al mondo per soddisfare le attese dei suoi genitori. E se nel quotidiano questa natura indipendente poteva risultare difficile da gestire, Marta intuiva di non aver il diritto di dolersene perché essere conforme non solo non era un valore in sé, ma, in fondo, riusciva difficile anche a lei.

la famiglia degli altri

Giulia, esserino terribile e meraviglioso, che a tre anni e mezzo continuava a svegliarli almeno un paio di volte a notte, aveva stravolto gli equilibri poco ortodossi su cui si basava la coppia Antoine e Marta. Avevano conosciuto l’amore passionale e divorante, quello in cui ogni secondo di lontananza è vissuto come un deserto infinito, avevano poi assistito malinconici alla trasformazione di quel sentimento in qualcosa di più domestico, convenendo, quando l’aspetto casalingo aveva iniziato ad annoiare entrambi, di non precludersi altri incontri e di non vietarli all’altro, nel limite del rispetto reciproco.

Avevano avuto degli amanti, senza mai allontanarsi, perché in fondo nessuno di quegli amori aveva significato per loro quello che significavano l’uno per l’altra.

Si erano sposati presto, per caso e quasi per scherzo: una cerimonia improvvisata nel municipio del XVIII arrondissement. Non vi avevano assistito né i genitori né altri membri della famiglia, perché per loro due si trattava di un impegno reciproco che non aveva bisogno di testimoni, a parte quelli previsti dalla legge. Lo avevano comunicato solo a cose fatte, mesi dopo, sconcertando tutti. Sposarsi era stato un gesto romantico e privato che non aveva alterato la quotidianità, né impedito loro di reinventarsi come coppia in base alle stagioni della vita, senza rendere conto di nulla a nessuno. La nascita di Giulia, invece, li aveva zavorrati a terra: non erano riusciti a salvaguardare un piccolo spazio personale, non tanto per relazioni extraconiugali, di cui in quella fase non sentivano né la voglia né il bisogno, ma per avere l’impressione di esistere oltre le cure che prodigavano alla loro bambina. Gli amici li avevano abbandonati o forse erano stati loro ad abbandonarli, presi nella spirale di ritmi sonno/veglia disumani e conciliabili appena con un’attività lavorativa ridotta. I corsi di lingua e di cucina non pagavano abbastanza perché Marta avesse cuore di separarsi troppo a lungo dalla sua bambina durante il giorno.

In fondo, era quello che voleva, si diceva, era quello che aveva sempre desiderato: passare molto tempo con sua figlia, essere una madre presente. Scriveva poco, la sera, quando Antoine rientrava e prendeva il testimone con Giulia. Scriveva male, cose che cestinava senza pietà rileggendole a qualche giorno di distanza. Stava appassendo. Per questo Antoine aveva insistito perché si dedicasse a qualche attività serale ludica o sportiva, ma quella che era stata pensata come una soluzione si era rivelata un’ulteriore fonte di malessere. Marta aveva scoperto una sete di attenzioni maschili insospettata e non riusciva a tenere i suoi corteggiatori alla distanza che Antoine riteneva opportuna alla sua nuova condizione di madre. Improvvisamente, si mostrava geloso se un uomo la riaccompagnava in macchina o se il suo maestro di pilates parlava troppo a lungo al telefono con lei. Più lui reagiva in modo possessivo, contrario alle loro regole di vita di un tempo e più lei, per dispetto, si circondava di corteggiatori. Era arrabbiata e ostile: in cosa l’essere mamma la rendeva diversa, inaccessibile, intoccabile? Antoine rincasava tardi. Marta non gli faceva domande, non chiedeva dettagli, intendendo dimostrargli, in quel modo, che l’unico a non essere coerente con il loro patto originario era lui. Un giorno, mentre inseguiva per casa Giulia con un piatto di pastina al pomodoro, aveva ricevuto la telefonata di una ragazza in lacrime, la stagista di Antoine. La sventurata aveva sentito «il bisogno morale», queste erano state le sue testuali parole, di avvertirla della loro relazione. Tirando su in modo disgustoso con il naso, le aveva confidato che con quella «rivelazione dolorosa» desiderava proteggere lei e Giulia dai comportamenti irrispettosi e irresponsabili di Antoine. Marta si era congedata ringraziandola per la sua filantropia, assicurandole che aveva sempre portato le corna con una certa eleganza. La maternità – aveva aggiunto – le aveva regalato un seno più prosperoso e trovava quasi le donassero più di prima.

Aveva ripreso il controllo della pastina al pomodoro e della bocca di Giulia, l’aveva lavata e addormentata, poi era entrata in camera e aveva riempito una valigia. Antoine aveva tentato di protestare, senza troppa convinzione, avanzando argomenti di cui era consapevole di non poter valersi più: il rispetto del loro patto di non esclusività, infranto proprio da lui con le sue recenti manifestazioni di gelosia, e la difesa dell’armonia familiare, messa a repentaglio dalla relazione con una donna che ignorava le regole del gioco e ambiva a sostituirsi a Marta. Da quel giorno, occupava il miniappartamento, provvidenzialmente sfitto, di cui era proprietario a Montreuil. Fra i suoi appunti a metà strada fra la bozza, il diario e il manoscritto, alla data della partenza di Antoine Marta aveva copiato una battuta del film Jules et Jim di François Truffaut. Era decisa a servirsene un giorno, come citazione da attribuire a un personaggio, magari proprio alla protagonista del suo prossimo romanzo, ma per il momento se ne stava appuntata là, sospesa, a ricordarle la sua disillusione:

Anch’io penso che in amore la coppia non è affatto l’ideale: basta guardarsi intorno. Hai voluto costruire qualcosa di più, rifiutando l’ipocrisia e il quieto vivere; hai voluto inventare l’amore, ma senza un minimo di umiltà, solo con l’egoismo. No, guardiamo in faccia la realtà: il nostro amore è un fallimento, non ci resta niente.

(Continua in libreria…)

 

Fotografia header: Elena Rui, foto di LouizArt Lou

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