Ne “La stanza delle mele”, nuovo libro di Matteo Righetto ambientato nelle Dolomiti bellunesi, natura, leggende e storia si intrecciano in un romanzo avventuroso: un ragazzino scopre in un bosco il corpo di un uomo appeso a un albero e, terrorizzato, fugge via col cuore in gola… – Su ilLibraio.it un capitolo

Torna in libreria Matteo Righetto, docente di Lettere e autore, con La stanza delle mele (Feltrinelli), un libro in cui natura, leggende e storia si intrecciano in un romanzo avventuroso.

Lo scrittore padovano, classe 1972, è autore, tra gli altri, di Savana Padana (Tea), La pelle dell’orso (Tea, da cui è stato tratto il film di Marco Segato con Marco Paolini), Apri gli occhi (Tea) e Dove porta la neve (Tea).

Nell’estate del 1954, Giacomo Nef ha 11 anni e vive con i due fratelli maggiori dai nonni paterni a Daghè, una minuscola frazione rurale nelle Dolomiti bellunesi. I due anziani sono tutt’altro che amorevoli: i bambini sono orfani e il nonno, convinto sia nato da una relazione della nuora in tempo di guerra, se la prende soprattutto con Giacomo, il più piccolo, che per punizione viene spesso rinchiuso nella stanza delle mele selvatiche, dove passa il tempo intagliando il legno e sognando l’avventura, le imprese degli scalatori celebri o degli eroi dei fumetti.

Quando Giacomo, durante una tempestosa e tarda sera d’agosto, viene mandato dal nonno nel Bosch Negher a recuperare una roncola dimenticata lì al mattino, l’avventura tanto sognata sembra corrergli addosso: alla luce di un lampo il ragazzino scopre il corpo di un uomo appeso a un albero. L’impiccato è di spalle e lui, terrorizzato, fugge via col cuore in gola.

Righetto, che conosce il mondo arcaico della montagna – durissimo e vivo di profumi, sapori, dialetto e leggende – ce lo restituisce in questa sua ultima opera.

Cover di La stanza delle mele di Matteo Righetto

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un capitolo:

La luce del giorno entrava dalla finestrella sopra di lui.
Il sole era alto e la luce calda, doveva essere quasi mezzogiorno.
Si passò una mano tra i capelli. Nella notte la febbre alta lo aveva attraversato ma il sudore era evaporato dal suo corpo, lasciando sulla pelle un forte odore acido.
Tentò di alzarsi. Sollevò lentamente il busto stringendo i denti e riuscì ad appoggiare la schiena al muro, poi piegò le gambe fino ad avvicinare le ginocchia al petto. Respirò lentamente e contò fino a tre, quindi con la schiena sempre appoggiata alla parete si tirò su e rimase in piedi per qualche istante.
Il peggio è passato, pensò.

Si strofinò gli occhi per liberarsi delle cispe e notò qualcosa davanti al portoncino. Qualcosa che la sera prima non c’era. Si mosse piano: la cesta intrecciata che Frida usava per mettere le uova da barattare con Cleto ogni venerdì mattina. Era ricoperta con uno strofinaccio bianco. Al suo fianco c’era una vecchia coperta di lana. Sollevò il panno. Una brocca piena d’acqua, un uovo sodo, un pezzo di pucia, una grossa fetta di speck e una di formaggio fodòm.
“La nonna…” disse Giacomo ritrovando il sorriso e bevendo subito un po’ d’acqua.
Da fuori si sentivano le voci di Titta e Celestino che confabulavano allegramente fra loro.
Uno dei due batté col pugno sul muro esterno della stanza, poi Titta gridò:
“Stavolta ti ha battuto per bene il vecchio, eh?” e rise insieme all’altro, che aggiunse:
“Te la sei cercata ancora, macaròn! Quando la smetterai di dire scemenze?”.
E risero ancora.

Con i suoi fratelli era sempre così. Quei due facevano coppia fissa e per loro Giacomo era solo un piccolo ficcanaso con la testa tra le nuvole, che poteva essere trattato con sufficienza e prepotenza. A volte capitava che prendessero le sue difese, ma quasi sempre si univano al coro e finivano per rincarare la dose, dicendogli che doveva svegliarsi e piantarla di cacciarsi continuamente nei guai come uno scemo. Posò a terra la brocca. Il dolore alla schiena mandava ancora stilettate, ma Giacomo non aprì bocca.
Celestino portò la bocca sotto la finestra e disse:
“Le avrai anche prese, Giacomino, ma con questa scusa te ne stai lì a dormire mentre noi qui fuori lavoriamo anche al tuo posto! Io ho spaccato legna tutta la mattina e Titta l’ha accatastata. L’inverno non aspetterà quelli come te!”.
“Scansafatiche!” urlò Titta.
E se ne andarono.

Giacomo si inginocchiò davanti alla cesta e prese la fetta di speck e un pezzo di pane. Li mangiò insieme, masticandoli lentamente e sempre tenendo gli occhi chiusi, cercando di ignorare i dolori che si riacutizzavano a ogni morso. Bevve dell’altra acqua, si avvicinò all’angolo opposto rispetto alla tana che si era scelto e fece la pipì tra il fieno mentre le fitte erano scalpelli conficcati nella carne.
“Devo rimettermi giù e aspettare…” disse sottovoce. “Proprio come fanno i gatti.”

Pensò alla vecchia gatta dei Moroder, i vicini di casa. Gli venne in mente quando era finita sotto il carro dei suoi padroni e le ruote l’avevano quasi stritolata. L’eco delle sue urla soffianti si erano udite fin quasi a Ciamplò, dove Titta era al pascolo con le vacche e aveva preso paura. Giacomo si ricordò che la gatta con le ossa rotte e il muso sfigurato si era ritirata in un angolo dell’aucer sopra il fienile dei Moroder ed era rimasta nascosta lì per due settimane senza mai uscire, al punto che pensavano fosse andata a morire nei boschi, lontana dagli occhi umani. Invece no. Dopo sedici giorni la gatta uscì dall’aucer claudicante e malmessa ma ancora viva.
“Devo fare come la gatta dei Moroder…” si ripeté.

Prese la coperta di lana e si trascinò al suo cantuccio. Si abbassò piano piano sulle ginocchia, poi su un fianco e infine si coricò in posizione fetale. Chiuse gli occhi, e iniziò a pensare alla dolcezza della prima neve, che quando cade ricopre un anno intero di terra e polvere. Si immaginò di essere steso sul Pralongià con gli occhi all’insù per guardare i fiocchi scendere su di lui ricoprendolo di candore. Si addormentò così, e cadde nel sonno per un giorno e una notte intera.

© Giangiacomo Feltrinelli Editore

(continua in libreria…)

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