Una locanda in un minuscolo borgo di montagna, una trentenne romantica, rimasta sola con un sogno che non è il suo, e una comunità pronta a correrle in soccorso. “La volta giusta”, il nuovo libro di Lorenza Gentile (di cui proponiamo un estratto) porta in un paesino sulle Alpi Marittime, in cui la protagonista scoprirà finalmente chi è…
Una locanda in un minuscolo borgo di montagna, una trentenne romantica rimasta sola con un sogno che non è il suo, e una comunità pronta a correrle in soccorso. Questi gli elementi principali della trama di La volta giusta, il nuovo romanzo di Lorenza Gentile (edito da Feltrinelli), in cui la protagonista, Lucilla, si ritrova improvvisamente sola in un borgo dimenticato sulle Alpi Marittime, a rischio di spopolamento.
Un passo indietro. Dopo una serie di uomini sbagliati e tentativi di adattarsi pur di essere amata, Lucilla incontra Enrico. Insieme vincono un bando per gestire una locanda in un “Comune polvere”. Sembra l’occasione ideale, finalmente…
Lucilla si ritrova però sola, nel sogno di un altro e con un contratto che prevede la presenza di una coppia. Restare o fuggire? Fingere di essere in due o imparare a contare su se stessa?
Intanto le viene in aiuto la gente del luogo: Eliseo, il custode delle tradizioni locali; Nives, esperta di erbe e madre resiliente; un giapponese misterioso che comunica solo attraverso un traduttore simultaneo; Libero, architetto diviso tra la montagna e la metropoli, che con Lucilla sembra capirsi senza bisogno di troppe parole.
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Ma, nel cuore dell’inverno, con le tubature ghiacciate e i ricordi che bussano alla porta, emerge pian piano che ognuno custodisce un segreto, e che ogni vita, anche se in apparenza perfetta, ha luci e ombre.
All’arrivo della primavera, Lucilla inizierà a comprendere che, quando si tratta di trovare il proprio posto nel mondo, non ci sono scelte giuste o sbagliate: in città o in montagna, da soli o in coppia, è solo una questione di sintesi personale. Quale sarà la sua?
Di romanzo in romanzo, l’autrice degli apprezzati Le piccole libertà, Le cose che ci salvano e Tutto il bello che ci aspetta, “non racconta solo la vicenda di singoli personaggi, ma interpreta un sentimento collettivo e molto contemporaneo: la ricerca della propria strada in un mondo che sembra volerci sempre uguali, e la scoperta che il momento in cui decidiamo di non adattarci più è spesso quello in cui iniziamo davvero a vivere”.

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:
Un tuono mi sveglia di soprassalto. Per un attimo mi sembra di essere ancora nel nostro letto di città, nel tepore del cotone, lui accanto. Poi mi accorgo che non c’è nessun tepore, ma soltanto un lenzuolo freddo e ruvido. La coperta è caduta a terra. Ecco perché sto tremando. E sono da sola.
Un altro tuono, ma non è un tuono. Sembra un corno, più che altro, un corno che annuncia una battaglia.
Questa è una zona di confine, ma non ci sono battaglie, giusto?
È incredibile come il dormiveglia suggerisca le più bizzarre domande.
Mia madre me lo diceva sempre, ma che domande fai? Pare che io abbia un talento per gli interrogativi strambi. Lei ha smesso di dirmelo, ma io non ho smesso di farle.
Se solo fossi diversa, quante cose sarebbero andate meglio.
O perlomeno, non così male.
Ma il suono, fuori, non cessa. Mi alzo in piedi e corro alla finestra. Attraverso la tendina ricamata e ingiallita vedo prima degli stivaletti, poi calzoni alla zuava, panciotti, gonnellone a righe, camicette con i pizzi, giacche di cotone allacciate con nastri sul davanti, scialli colorati sulle spalle, fasce scure nei capelli. Facce rubiconde e sorridenti.
Ed è un corno, sì, un corno alpino. Altro che tuoni!
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Posizionato al centro del giardino, accanto al tavolo da picnic, tocca terra in tutta la sua maestà, a suonarlo un vecchio grande e grosso, con barba vichinga e cappello di feltro. De- v’essere il direttore del coro, ne sono certa. Perché è un coro, quello attorno a lui. Hanno tutti in mano uno spartito. Saranno una dozzina. Forse qualcuno in meno.
Ops, mi hanno visto. Tanto vale aprire la finestra. Il coro ha attaccato a cantare, una signora seduta su una sedia di plastica, accompagna con la fisarmonica. C’è pure un flauto traverso. Batto le mani a tempo. Mi sento sorridere, dentro.
L’orologio alla parete segna le dieci e mezzo. (Per fortuna mi ero portata dietro due confezioni di pile.) Mi tornano in mente le parole della dottoressa Parodi. Pranzo di benvenuto. O era colazione e sono in terribile ritardo? Da quant’è che mi aspettano? A che ora ci si sveglia quassù?
Faccio segno di attendere, sarò fuori in un momento. Mi infilo i vestiti di ieri e mi pettino allo specchio. Sul viso le trac- ce del sonno mancato. Ore a fissare il soffitto per quel cigolio che non capivo cosa fosse. Poi un animale, o chi per esso, che si muoveva in giardino. Così mi sono dovuta alzare e barricare dentro, trascinando tavoli e sedie contro le porte.
Per finire il telefono che non prendeva, le lenzuola gelide, i ragni che formicolavano nell’ombra, le formiche che sgambettavano sul materasso, e altri incubi o presunti tali.
“Insonne,” ammetto sulla porta d’ingresso al signore con la barba da vichingo, che si è sfilato il cappello di feltro prima di chiedermi com’è andata la notte.
Sempre meglio essere sincera, giusto?
Lui si scioglie in un sorriso, calcandosi di nuovo il cappello in testa.
“Benvenuti,” dice poi allargando le braccia, “ci vuole un po’ di tempo per abituarsi all’altitudine, e all’aria delle nostre parti, che è di montagna, ma pure di mare… Vedrete che tra qualche giorno andrà meglio. Ci vengono a fare le cure del sonno, qui da noi.”
“Ah, però.”
“Venivano, per essere precisi. Ma torneranno. Anche grazie a voi.”
Sbircia oltre la mia spalla, immagino aspettandosi di vedere Enrico.
“Già, verranno, cioè verrà.”
Cerco di fare più luce possibile con il mio sorriso per sopperire alla mancanza. Perché Enrico non c’è ancora, e non voglio che pensino che non siamo seri o affidabili. La prima impressione è importante, certe persone non la superano mai, restano sempre lì.
Al liceo presi un sei meno al primo tema in classe e quel meno me lo portai dietro per tutti i cinque anni: che fosse cinque meno nei giorni cattivi o, in quelli buoni, sette meno. Ero sempre “meno” di qualcosa.
“Lei sta sentendo i nostri canti in dialetto, un patrimonio inestimabile per noi, non solo di cultura ma anche di umanità. Che poi è la stessa cosa. A me piace leggere, libri o persone fa lo stesso.”
“Leggere?”
“Manteniamo la tradizione dei nostri vecchi. Ha un valore affettivo, capisce?”
“Capisco,” mi affretto a dire. “Sono molto… musicali.” Annuisco a tempo con aria convinta.
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Potrei apparire ridicola – che poi vorrebbe dire sentimentale, giusto? –, ma in fondo chi mi guarda? A parte loro, intendo. Quassù per un bel po’ di tempo non mi guarderà nessuno. Nessuno mi giudicherà, nessuno mi dirà che ho la faccia stanca o i capelli arruffati o che devo indossare i punti luce ai lobi o stare più dritta con la schiena o che ne so io. E poi ho sempre amato i cori, sempre amato le bande. Più cori, più bande in questo mondo!
Da piccola, quando sfilavano per le strade del mio paese, trascinavo mia madre per la mano, volevo unirmi al corteo, ballavo, mi sentivo in festa.
Dimenticavo, ogni volta, che dopo mia madre si sarebbe lamentata accusandomi di voler sempre dare spettacolo, di non sapermi comportare, e lei era stanca di insegnarmi qualcosa che non volevo imparare.
“Sono Eliseo,” tuona il vecchio allungandomi una grande mano callosa, “presidente della Comunità montana. O almeno lo ero, quando c’era ancora la comunità. Ora ci sono altre cose, non so. Ma mi chiamano ancora presidente. La Comunità mon- tana abbiamo intenzione di rimetterla in piedi, in ogni caso.”
È in là con l’età ma ancora piacente, possente mi verrebbe da dire, tutto petto e braccia, con questo volto abbronzato su cui la barba bianca sta una meraviglia: è ancora un bell’uomo a suo tempo, deve aver mietuto vittime qui nelle valli, e forse ancora tra le coriste, a giudicare da come lo ammirano. Un montanaro di tutto rispetto, insomma, ma con un che di arti- stico, nei modi e nel volto.
“Io mi chiamo Lucilla.”
Gli porgo a mia volta la mano. Lui me la stringe, senza stritolarla come temevo. È solo calda e confortevole. Ha forza, ma non la mette in mostra. Mi piace, questa mano.
“Lucilla, che porta luce. Bene, bene. Una delle ragioni per cui sei stata scelta.”
“Ah, sì?”
Nessuno ha mai fatto tanto caso al mio nome, mi pare. “Adesso una prova facile facile.”
“Una prova?”
Il coro ha smesso di cantare, sorridono. Le prove mi agitano.
“Potremmo aspettare che arrivi Enrico? Ha avuto un contrattempo, ma sarà qui molto presto. Questione di qualche ora, direi.”
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“Qualche ora? E che facciamo nel frattempo? No, no.” Eliseo fa un gesto sbrigativo. “Tûtti i lasciae son persii. E io ho fame. Non so te!”
“Be’, quasi quasi…”
Intravedo già una donna alle prese con una specie di banchetto, sul limitare del giardino. Meglio non mettersi a discutere, giusto? Certo, che ho fame. E poi mi dà sollievo che il presidente non aspetti Enrico con la premura che temevo. Ma come hanno fatto a entrare qui? Hanno le chiavi della locanda? Io dormivo e non me ne sono neanche accorta.
“Quindi, la prova… In che senso?” esito.
Eliseo si sfrega le mani. “Una prova di vocabolario. Dovremo pure intenderci, no? E da cosa si parte, se non dal linguaggio? Altrimenti finisce come a briscola, io gioco cuori e tu rispondi picche. Mica va bene così.” Mi guarda. “Dai, cominciamo. Se non ne sai una o due non ti preoccupare. Anzi meglio, così ci trovi gusto a imparare.”
“Trovarci gusto, certo…”
“Allora cominciano con la prima: sottano.” “Sottano… Gonna?”
Magari qui usano il maschile.
Lui scoppia in una sonora risata, scuote la testa. Poi si fa serio: “Sottano, situato in posizione sottostante. La strada sottana…”.
Indica la strada tutta curve sotto di noi, appunto. Strada ancora sgombra da qualsivoglia furgone con alla guida Enrico.
“Sottana come gonna, infatti, che si porta subito sotto.” “In effetti.”
“Soprano?”
“Be’, soprano è una cantante d’opera. Forse una componente del vostro coro?”
Eliseo si batte la fronte con la mano.
“Mi dispiace, sono una da sei meno, io,” gemo.
“Se la strada sottana è quella di sotto, la strada soprana sarà…?”
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“Quella di sopra?” Era ovvio.
“Quindi, soprano: situato in posizione più alta,” preciso, per dimostrare che non sono una cima, a proposito di montagna, ma con un piccolo aiuto me la cavo.
Sei meno. Cos’avevo detto? “Bric? Questa bisogna saperla.”
Bric. Bric… Enrico dove sei? Perché sono qua da sola a fa- re il test della Comunità montana? Perché mi trovo davanti a questo signore che… Solo adesso mi accorgo del bambino. È sempre stato lì, nascosto dietro al vecchio, o è arrivato senza che me ne accorgessi?
Ha un cappello da pescatore e indossa una felpa due volte la sua taglia, un paio di larghi calzoncini e scarponcini da passeggiata.
Attaccato alle gambe di Eliseo, mi guarda con occhi divertiti. Come se fossi strana. Non saprei dargli un’età, e spero che non mi rivolgano domande in tal senso, sparerei un numero a caso.
E poi avevo capito che non c’erano bambini, qui.
“Tu sei la mamma di chi?” mi chiede, mentre ancora mi lambicco il cervello dietro al significato di “bric”.
“Non sono la mamma di nessuno,” rispondo, e non mi pia- ce dirlo. “Sono Lucilla e basta,” aggiungo, forse in modo un po’ troppo brusco. Ma quale tono si usa con i bambini senza apparire melensi o condiscendenti?
Mi piego sulle ginocchia per guardarlo negli occhi. “E tu?” Il bambino affonda il viso nei pantaloni alla zuava di Eliseo,
non mi risponde.
“Bric, cima, dirupo,” intona il vecchio dall’alto. Molto alto.
Da questa prospettiva sembra quasi in Paradiso. Scatto in piedi, annuendo. “Certo, dirupo.”
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“Colla?”
“Quella che si usa per appiccicare?” “Passo alpino,” sospira. “Ubago e aprico?” “Uccelli locali?”
“Lato in ombra e lato al sole delle vallate. Balma?” “Diminutivo di balsamo?”
“Riparo sotto la roccia. Pelouse?” “Peloso?” azzardo.
“Quasi. Prato verde.” “Questo vale, dai.” “Vastera?”
“Passo…”
“Recinto per gli animali.”
Sapevo che andava a finire così. Vorrei protestare, ma Eliseo mi sorprende o io sorprendo lui, perché chiede: “Carruggio?”. E io rispondo, a colpo sicuro: “Vicolo”.
“Ecco, sul mare sei preparata. Ma qui bisogna salire di li- vello.”
“Mi sa che non ho superato il test.”
“Hai ancora una possibilità. Ti dico la parola più importante, se indovini vinci tutto. D’accordo?”
Data la situazione corrente del mio test, da due meno, accetto.
“Alpe.”
“Montagna,” rispondo senza esitare. “Eh no, l’alpe è l’alpeggio, il pascolo.” “Non ho raggiunto la sufficienza, vero?”
“Per il momento direi di no,” fa lui, pensieroso. “Ma pian piano vi insegneremo tutto, a voi due, non temete. Anzi, ci sarà più gusto.”
Questo sì che è un tipo originale.
“E nel frattempo come ci intenderemo?” gli chiedo dubbiosa.
“A gesti,” fa lui facendo quello di mettere qualcosa sotto i denti.
Il bambino ha appena trovato una lumaca. “Questa è la mamma di chi?”
“Forse di qualche altra lumachina,” sospiro. Le cose non stanno andando come speravo.
“È Enrico, il mio compagno, quello preparato su queste cose,” spiego a Eliseo. “Arriverà tra poco.”
“E noi lo aspetteremo… mangiando. Via, non darti pena. In fondo, solo chi non sa può imparare. E cosa c’è di più bello di imparare? A mio parere ninte de ninte.”
Detto questo, mi fa strada verso il tavolo da picnic al centro del giardino cha dà sulla vallata, dove nel frattempo è stato allestito un vero banchetto.
“Monte?” chiede voltandosi all’improvviso, con l’indice alzato.
“Montagna,” scatto.
Sorride. “Nient’affatto. È l’area intermedia tra l’Alpe e il fondovalle.”
A fondo, ecco dove mi sento arrivata.
(continua in libreria…)
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Fotografia header: Lorenza Gentile, nella foto di Bianca Rizzi