Quattro ragazze adolescenti si torturano a vicenda. Esercitano così un controllo asfissiante, morboso e sadico l’una sul corpo dell’altra. E non solo sul corpo… – Su ilLibraio.it un estratto dal romanzo di formazione d’esordio di Benedetta Sofia Barone, “Le infelici”

Quattro ragazze adolescenti si torturano a vicenda calandosi lungo la gola una sonda, un tubo di plastica trasparente che negli ospedali si usa per le manometrie. Esercitano così un controllo asfissiante, morboso e sadico l’una sul corpo dell’altra. E non solo sul corpo.

Attraverso il loro rapporto, spiano e tengono d’occhio l’identità di ciascuna, la mantengono sotto perenne osservazione. Nessuna è libera di manifestarsi, perché deve corrispondere a ciò che il gruppo ha stabilito preventivamente di lei. In questo senso l’amicizia diventa il luogo di un sentimento d’infelicità. E l’adolescenza esula dall’effettivo passare degli anni, non corrisponde solo a un arco di tempo anagrafico. È una trappola esistenziale, dalla quale non si esce se non mediante un preciso atto di volontà. “La vita notturna e le ossessioni nei confronti dell’immagine che caratterizzano la nostra contemporaneità, sono il contorno di un dolente, allucinato, distopico racconto di presa di coscienza individuale”.

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Il romanzo di formazione Le infelici di Benedetta Sofia Barone è il secondo titolo della collana Diagonale di Do it human (con la prefazione di Camilla Ronzullo, Zelda was a writer) e segna il debutto narrativo dell’autrice, che scrive per diverse testate (si occupa di giovani, oltre che di cinema e letteratura, femminismo, attualità e fenomeni sociali, e durante gli anni del Covid ha fondato un progetto digitale autonomo per raccontare la sua generazione).

La casa editrice evidenzia lo stile poetico e sperimentale del libro, che affronta temi come l’alcolismo, le relazioni tossiche e l’auto-sabotaggio.

Le infelici di Benedetta Sofia Barone

Su ilLibraio.it, per gentile concessione della casa editrice, proponiamo un estratto:

(…) Ma poi, la sonda veniva usata contro di me. Allora mi accorgevo chiaramente che le mie azioni dell’ultimo mese, tutte quante, o meglio, non tutte, perché alcune venivano tralasciate secondo un chiaro, preciso intento – ossia sollevare soltanto quelle che erano funzionali a una teoria, alla loro teoria – erano state oggetto di discussioni, di confronti mentre io non ero presente. Questo mi arrecava un disturbo, un dispiacere che mi trapassava da parte a parte, esattamente come il tubo della sonda. La sua consistenza trasparente, insipida, la sua sottile, lenta avanzata dal principio della gola e poi giù per l’esofago.

Mi facevano male. Ogni volta mi promettevo di restare calma, di distendere quelle maledette dita, non torcerle, non anchilosarle, fingere disinteresse, umorismo, in fondo era un gioco, solo un gioco, non credevano nemmeno loro a quell’operazione, ciò che contava era il bene che ci volevamo, lo ripetevano sempre.

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Eravamo amiche, non dovevo prendermela, non dovevo arrabbiarmi, loro mi volevano bene, mi volevano bene così com’ero, non dovevo metterlo in dubbio.

Eppure, mi agitavo. Cominciavo a stringere gli occhi, a contrarre le sopracciglia, a scuotere la testa. La sonda, infilata precariamente all’interno dei miei organi, creava un attrito, uno sfregamento che scatenava in me l’istinto di allontanarle con un calcio.

Invece, restavo al mio posto. Mi sforzavo di respirare, di mantenere la calma, anche perché soltanto chi la reggeva dall’alto, chi la teneva in mano aveva il potere di estrarla. Qualsiasi gesto brusco, qualsiasi reazione avventata rappresentava un pericolo per la persona sondata.

Ero così messa al corrente dell’interpretazione che circolava sui fatti che accadevano nella mia vita. Avevano memorizzato episodi che perfino io avevo rimosso, oppure ai quali avevo dato un’importanza minima. Mi attribuivano frasi che non avevo mai detto, ideologie che mi erano del tutto estranee. Com’era possibile? Mi ero lasciata sfuggire qualcosa in un momento di poca lucidità? Evidentemente non ero presente a me stessa, non abbastanza, dovevo risultare più chiara, non dare adito a incomprensioni.

Insinuavano che mi ero snaturata, che mi snaturavo sempre, in quasi tutti i contesti: ma da quale natura?

Farneticavo, farneticavo quando mi innamoravo e anche quando sostenevo il mio desiderio di restare libera, di non volermi impegnare mai, in nessuna relazione. Quando parlavo del mio rapporto con la scrittura, delle mie ambizioni e quando mi trasportavo in un prossimo futuro, immaginando le mie decisioni in merito al matrimonio, ai figli. I miei rapporti amorosi e d’amicizia contenevano tutti un fondo ambiguo, limaccioso. Mi raccontavo delle frottole. Inventavo.

Una frase non era mai solo una frase, rappresentava un asse superficiale, traballante, bastava sbatterci appena un poco i piedi perché crollasse e rivelasse la sua struttura fragile, misera, priva di valore.

Sembravano concordi, pienamente coese. Anche se poi, quando restavamo sole, ammettevano: «Hai ragione, abbiamo esagerato. Guarda, la penso come te. Infatti, sono d’accordo». Si dimostravano subito concilianti, comprensive. Senza le altre due, perdevano forza, perdevano la risoluta integrità del gruppo.

Benedetta SofiaBarone nella foto di Susanna Artico (Photo Studio ARTICO)

Benedetta Sofia Barone nella foto di Susanna Artico (Photo Studio ARTICO)

Del resto, che coraggio avevo di sentirmi ferita, oltraggiata, quando non facevo niente di diverso? La sonda toccava a tutte, io stessa davo adito a congetture, a speculazioni, a fantasie sul loro conto, sulle loro scelte, sulla loro condotta. Mi demolivano e io demolivo tutte a mia volta.

Era vero, perciò, era vero, sì, mi riempivo la bocca di analisi esistenziali da qualsiasi parte, in compagnia di chiunque, anche quando non ce ne sarebbe stato alcun bisogno, anche quando non era il caso, perché il mio era un modo di andare in scena. Simulavo, sì, simulavo ogni cosa. Che provassi a negarlo! Simulavo la mia identità, perché ero persuasa di non essere niente di speciale. Mietta aveva ragione! Sì, non erano altro che maschere le mie, la maschera dell’impegno intellettuale, la maschera dell’impegno politico, ma a chi volevo darla a bere? Potevo mai, sposando certe tesi, andare in giro vestita in quella maniera? Indossando vestiti inguinali? E poi pretendevo pure di elevarmi, di dare lezioni di storia, lezioni di filosofia, essere considerata una che legge, una che va al cinema!

Quante contraddizioni.

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Non avevo mai acquisito il senso della realtà, ero dominata dall’apparenza, dal modo in cui apparivo, dal modo in cui gli altri mi percepivano. Credevo in un sogno, in uno sbuffo di fumo. La letteratura, i libri! Idee astratte, inconsistenti, vuote. Inutili. Il mio essere femminista, ambientalista. Una militante. Certo, una militante in pelliccia. Una militante che si aggira avvolta in una spirale di profumo, la borsa firmata, il rossetto a strabordare dalla linea delle labbra, quasi a volerle rendere più turgide, gonfie, simili a quelle di una bambola, anche questo era un tentativo di travestirmi, di mentire. Ero un’impostora, un’impostora che si è costruita artificialmente, a tavolino, e si muove secondo continue strategie. Avevo una strategia per tutto, non era così? A seconda di ciò che mi conveniva. Potevo anche presentarmi la domenica, in una pasticceria del centro, con il Manifesto sotto il braccio. O andare a manifestare, prendere parte ai cortei, quando mi ero seduta ai tavoli di tutte le discoteche, a farmi corteggiare da uomini ricchi, in camicia azzurra, le iniziali del nome cucite in basso a destra, mi avevano vista. Che tornassi poi a frequentare le mie scuole di scrittura, imbacuccata in cappotti lisi, a disquisire, a fare la comunista seduta ai tavoli delle birrerie, in sordidi ristoranti, magari l’avrei data a bere, del resto ero brava a cambiare personalità, a trasformarmi, loro sapevano. Dissociata, dissociata! In virtù di che mi sentivo tanto superiore? Eh? Dandomi arie da esperta, cercavo solo di manipolarle.

Non ero nulla di reale, ero ciò che appare. Non ero nulla di reale, vero solo ciò che appare.

«Esatto! È così!» proclamava finalmente Mietta. Mi cingeva, mi aiutava ad alzarmi, mi asciugava con i polpastrelli il trucco sbavato alla base delle ciglia. «Amore, va tutto bene. Amore, non fare così. Stai tranquilla».

«Lo so, lo so, ma io…» balbettavo.

«Ecco, adesso sei te stessa. Vedi? È così bello quando sei te stessa. Non hai bisogno di tutta quella roba, di tutte quelle sovrastrutture».

«Sei meravigliosa» mi diceva, stampandomi un bacio in fronte.

Boccheggiavo, vinta, incapace di aggiungere alcunché.

(continua in libreria…)

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